X

Grazie Brexit, dal male al bene su tutti i fronti

ImagoEconomica

L’intelligenza artificiale batte gli umani in un numero crescente di giochi perché è capace di fare ipotesi su un numero molto più alto di scenari e perché non è soggetta alle emozioni. Gli umani, per contro, hanno vari difetti di fabbricazione che li portano a essere lineari ed estrapolativi nel modo di ragionare e a prevedere un numero limitato di scenari. Di fronte a Brexit, uno shock, si è reagito facendo perdere alle borse europee fino al 12 per cento perché ci si è fermati a vedere l’evento senza guardare il contesto (l’economia globale che continua a crescere) e senza dare il peso dovuto alla mossa successiva (la reazione espansiva delle banche centrali e dei governi).

L’emozione ha poi indotto a pensare in modo lineare ed estrapolativo che Brexit avrebbe prodotto un effetto domino, facendo crescere il sentimento euroscettico in tutti i paesi europei e promuovendo ovunque referendum per l’uscita dall’Unione destinati a essere vinti immancabilmente dalle forze nazionaliste. In questo contesto la crisi bancria italiana sarebbe velocemente diventata europea e globale. Qualcuno (Soros) ha evocato scenari foschi e dato per imminente una crisi globale peggiore di quella del 2008.

Ed eccoci così, due settimane dopo Brexit, con la borsa di New York ai massimi di tutti i tempi e con quella di Londra in rialzo del 7 per cento rispetto all’inizio dell’anno. Perché? Partiamo dall’epicentro del terremoto, il Regno Unito, che ha già dimostrato, con la drastica svalutazione della sterlina, con una Banca d’Inghilterra con un’ottima capacità di controllo della situazione e con la rapida formazione di un nuovo governo coeso e forte, di avere la qualità principale che serve per assorbire gli shock, la flessibilità. La storia europea di questi anni è una conferma clamorosa del fatto che i flessibili vincono e i rigidi perdono.

L’Irlanda ha sofferto nella crisi come l’Italia, ma ha tagliato drasticamente la spesa pubblica, ha lasciato emigrare senza piangersi addosso la più alta percentuale di residenti di tutta Europa e ha tenuto basse le tasse. Il risultato è che il Pil irlandese è cresciuto del 26 per cento nel 2015 (con tutti i se e i ma del caso, con buona pace di Krugman, è comunque un dato impressionante) e crescerà molto anche quest’anno grazie agli esiliati dalla City di Londra. La Francia, all’opposto, ha mantenuto tasse alte e rigidità e così si ritrova con la crescita zero e un forte malcontento sociale. Il Regno Unito seguirà certamente la strada dell’Irlanda più che quella della Francia. Soffrirà un paio d’anni e poi si riprenderà.

A Brexit ha reagito positivamente anche l’opinione pubblica europea. La Spagna ha votato per la stabilità e in Germania la voglia di tenersi stretta l’Unione Europea è tornata forte, Cdu e Spd sono tornate a crescere nei sondaggi (mentre AfD è in caduta libera) e la Merkel è di nuovo saldamente al timone. I gollisti francesi stanno togliendo spazio alla Le Pen con proposte sensate di democratizzazione dell’Unione. Intendiamoci, l’Europa rimane l’area più fragile del mondo sviluppato, ma non sta precipitando nel caos. Grazie a Brexit le politiche fiscali europee si stanno ulteriormente addolcendo. A Spagna e Portogallo, che hanno clamorosamente sforato sul deficit, sono state simbolicamente tirate le orecchie, ma niente di più. Lo stesso accadrà a Italia e Francia. La Merkel fa finta di niente e lascia fare alla Commissione. Una Merkel più forte avrà anche più spazio per permettere all’Italia di affrontare la sua crisi bancaria con meno costi sociali.

Brexit ha indotto la Fed a rinviare di fatto a dicembre un eventuale rialzo dei tassi. Il timore che Brexit possa assumere forme americane con Trump presidente induce la banca centrale a premere al massimo sull’acceleratore e a non disturbare il rialzo azionario. Gli utili sono più bassi di un anno fa e l’indice di borsa è più alto, ma nessuno parla più di bolla. A Brexit si è poi aggiunta la forte vittoria elettorale di Abe in Giappone. L’Abenomics avrà deluso, ma gli elettori hanno intelligentemente capito che senza Abenomics sarebbe stato peggio. Forte di questo consenso Abe rilancerà quel mix di politiche monetarie e fiscali per il quale l’unica cosa ancora da decidere è se dovrà essere chiamato helicopter money o no (una scelta di marketing, non di policy).

Come ha notato Blanchard, sull’helicopter money c’è in giro un po’ di pubblicità menzognera da parte di chi ne esalta le virtù miracolose. In effetti c’è parecchia confusione e vale la pena fare chiarezza. Tra il Qe prima maniera e l’helicopter money c’è un continuo con varie gradazioni di colore. Il primo Qe era l’acquisto temporaneo di titoli da parte della banca centrale con l’impegno di rivenderli appena possibile. Con gli anni l’acquisto temporaneo è diventato a medio termine e poi a lungo termine. I titoli che scadono vengono sostituiti con titoli sempre più lunghi (lo sta facendo anche la Fed). Per adesso ci si ferma a 30 anni, ma già si parla di 50 o 100. Bernanke sta suggerendo ad Abe di emettere obbligazioni perpetue a tasso zero da fare comprare alla Banca del Giappone al posto dei Jgb attuali.

I perpetui sono la forma pudica per esprimere il concetto di cancellazione definitiva del debito. Il passaggio successivo è la cancellazione ufficiale del debito posseduto dalla banca centrale. Fin qui, attenzione, siamo sul monetario. Il fiscale inizia nel momento in cui il governo, che si è visto graziosamente abbassato lo stock di debito, decide, spendendo, di riportarlo verso il livello precedente. Poi, come dicevamo, ci sono gli aspetti di marketing, che potrebbero però avere una ricaduta economica. Contabilmente, infatti, la differenza tra allungamento all’infinito del debito e cancellazione è formale, ma economicamente diventa sostanziale se i contribuenti, liberati dalla prospettiva di tasse future che un giorno dovranno ripagare il debito, si rilassano e si mettono a spendere di più. Lo spostamento verso l’helicopter money conclamato avverrà per gradi e con una sperimentazione che vedremo presto in Giappone e forse, più in là, nel Regno Unito. In America vedremo invece, dopo le elezioni, un aumento tout court della spesa pubblica in disavanzo, ma senza monetizzazione.

In Europa le cose saranno più lente e faticose, ma tra la maggiore tolleranza degli sforamenti di bilancio e la possibile introduzione di un’indennità di disoccupazione mutualizzata qualcosa si vedrà. Nel medio termine il ricorso a politiche monetarie e fiscali sempre più aggressive aumenterà le attese di inflazione e non potrà fare bene ai bond. Nel breve, tuttavia, il Qe europeo e giapponese, schiacciando sotto zero i rendimenti dei governativi, continuerà a spingere molti investitori a cercare rifugio nei Treasuries e manterrà quindi compressa la curva americana. Con la curva sempre più piatta avrà via via meno senso stare su scadenze lunghe. Per le borse la prospettiva di politiche ancora più espansive è ovviamente positiva fino a quando queste politiche non si tradurranno in tassi più alti. E fino alle elezioni americane di novembre è ben difficile che i tassi salgano.

Ultimo punto. Perché in gennaio i mercati si sono mostrati insofferenti rispetto alla Cina, alla geopolitica, al petrolio mentre oggi incassano con un sorriso Brexit e il renminbi ai minimi? La differenza non è nelle risposte monetarie (che ci furono anche in febbraio e marzo) ma nell’economia americana, allora debole e oggi in buona salute. Teniamolo presente per il futuro e per le prossime scadenze referendarie ed elettorali di autunno e primavera.

Related Post
Categories: Commenti