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Grani antichi e grani moderni: non è tutto vero quel che si dice

grano

Quando pensiamo alla polemica che negli ultimi anni stà imperversando sui media tra grani antichi e moderni, viene in mente la «Querelle des Anciens et des Modernes» (polemica degli antichi e dei moderni) che è stata una polemica nata nell’Académie française che agitò l’ambiente letterario e artistico francese della fine del XVII secolo.

Gli Antichi, capeggiati da Boileau, dicevano che gli antichi greci e romani avevano raggiunto una volta per tutte la perfezione artistica e che, pertanto, non essendo possibile fare meglio, occorresse imitarli. I ˮModerni”, rappresentati da Charles Perrault, affermavano che gli autori classici non erano affatto insuperabili e che la creazione letteraria doveva rinnovarsi; essi chiedevano una letteratura che fosse interprete dell’epoca contemporanea e che ricercasse nuove forme artistiche.

Le due diverse tesi potrebbero applicarsi in tutte quelle circostanze dove vengono a confronto rivalità contrapposte, e nel caso dei grani quelli antichi vs i moderni.

Quando pensiamo all’agricoltura, possiamo pensare che essa è l’espressione di un processo naturale? Nulla di più sbagliato! In 9000 anni (12.000-3.000 AC) l’uomo passò da raccoglitore-cacciatore ad agricoltore e da questo momento in poi della sua storia ad oggi è stato stimato che circa 2.500 specie sono state sottoposte al processo di domesticazione inteso come le modificazioni/selezioni di una specie selvatica che portano alla creazione di una nuova specie che risponde ai bisogni dell’uomo.

Quindi è logico pensare che l’agricoltura è un processo quanto di più “innaturale” possa esserci e questo ci fa meglio comprendere il lavoro di Nazareno Strampelli (agronomo esperto in genetica delle piante)  che nei primi anni del 900 in cui l’obiettivo era sfamare una popolazione crescente, sia stato principalmente indirizzato all’individuazione, attraverso l’incrocio e la successiva selezione della progenie, di nuove varietà di piante che si dimostrassero più produttive per diverse ragioni, tra cui la taglia (altezza) della varietà, il momento della spigatura e la resistenza ai funghi patogeni.

Ma quali differenze ci sono tra grani “antichi” e “moderni”? Le varietà cosiddette antiche sono i frumenti selezionati da ricercatori a partire dai primi del ‘900 sino agli anni ’60 mentre le varietà moderne sono quelle selezionate dagli anni ’60 in poi. Oggi si assiste ad un revival dei frumenti antichi a cui si attribuiscono caratteristiche positive spesso in contrasto con i frumenti moderni. I frumenti moderni hanno meno proteine e quindi anche meno glutine rispetto ai frumenti antichi. E questo in generale perché i frumenti moderni hanno una produttività più alta che determina un prodotto finale con meno proteine. Un importante differenza tra frumenti antichi e moderni risiede nella qualità del glutine, che in quelli moderni ha una forza maggiore e questo perché si sono sviluppate quelle specie che avendo un glutine tenace ha permesso di fare pani più soffici e paste sempre al dente come richiesto dai consumatori.

Proprio grazie a questa tenacia del glutine dei grani moderni, c’è chi pensa che per questa ragione sia meno digeribile di quelli antichi e che quindi faccia più male e possa contribuire ad aumentare o addirittura a scatenare la celiachia e le intolleranze al glutine, di conseguenza i grani antichi contengono meno glutine e possono essere consumati da chi ne è intollerante senza problemi. Come dice Laura Rossi, ricercatore del CREA del Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione di Roma, questo è falso e addirittura pericoloso perché un celiaco non può mangiare grani antichi, questi contengono comunque glutine e come tutti i cereali che lo contengono devono essere esclusi dalla dieta di chi è affetto da morbo celiaco.

Con il miglioramento genetico, ottenuto grazie alla selezione ed all’incrocio genetico, sono state ottenute varietà di frumento con più glutenine e meno gliadine in quanto sono proprio le glutenine e non le gliadine che favoriscono la tenacità dell’impasto. La reazione della celiachia a livello intestinale non avviene nei confronti di tutto il glutine, ma solo dei suoi frammenti, chiamati “epítopi tossici”, maggiormente presente nella gliadine. Dal momento che il grano “antico” contiene un maggior rapporto tra gliadine e glutenine, c’è dunque la possibilità che il grano “antico” faccia più male di quelli moderni.

A sostegno di questa tesi si sono espressi anche i ricercatori del Crea Cerealicoltura e Colture industriali (sede di Foggia), delle Università di Modena e Reggio Emilia e di Parma, che grazie al progetto di ricerca “Antiche varietà di frumento duro e salute: valorizzazione della filiera pastaria, claim salutistici ed etichettatura nella cornice normativa interna e sovranazionale” hanno confrontato 9 grani antichi (diffusi maggiormente nel Sud Italia e nelle Isole dagli inizi del 1900 fino al 1960) con 3 grani moderni, sia per quanto riguarda la celiachia sia per il contenuto di amido resistente. La sperimentazione ha paragonato campioni che sono stati coltivati e raccolti presso il Crea nelle stesse condizioni sperimentali di campo, per poi essere macinati e successivamente analizzati dall’Università di Modena e Reggio Emilia e da quella di Parma.

Le conclusioni dello studio, pubblicato sulla rivista Food Research International, affermano che nessun celiaco possa assumere prodotti derivanti da grano (segale, farro, orzo e avena) compreso i grani antichi che sono caratterizzati da una maggiore componente proteica e rilasciano una maggiore quantità di peptidi scatenanti la celiachia rispetto ai moderni. Inoltre, nessuna differenza sostanziale è stata riscontrata per quanto riguarda invece il contenuto di amido resistente dopo la cottura della pasta, quindi non sembra esserci un potenziale effetto prebiotico in più nei grani antichi.

In Italia e nel mondo il numero delle diagnosi di celiachia è in continua crescita. La celiachia è l’intolleranza alimentare più frequente, si stima che in Italia la sua prevalenza si aggiri intorno all’1% e che il numero teorico di celiaci sia di 600.000, contro i quasi 200.000 ad oggi diagnosticati. Nei social media, spesso è riportata la fake news che la prevalenza della celiachia e della sensibilità al glutine è in aumento negli ultimi anni, e il motivo di questa crescita è il consumo di cereali moderni e raffinati. In realtà, non c’è nessuna evidenza scientifica che indichi che il numero dei casi di celiachia sia in aumento e che, soprattutto, ci sia una correlazione tra consumo di una specifica varietà di grano, l’uso di pesticidi usati in agricoltura e il tipo di sfruttamento dei terreni di coltura e lo sviluppo di celiachia.

La stessa esistenza della sensibilità al glutine è ancora oggetto di ricerca ed è messa in dubbio da eminenti ricercatori nel campo della celiachia. La celiachia sembra stare oggettivamente aumentando e ciò dipende da una maggior consapevolezza e conoscenza della patologia da parte della classe medica e da una maggiore disponibilità di test diagnostici sempre più sensibili e specifici, e nel contempo meno invasivi. Quindi si sta portando allo scoperto un numero sempre più crescente di pazienti che fino a qualche anno fa sarebbero rimasti non diagnosticati.

Stando ai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità, la quantità di glutine nel grano, secondo studi epidemiologici e clinici, non influenza la crescita delle diagnosi rispetto al passato. In secondo luogo, mangiamo molto meno glutine di un tempo: la quantità di prodotti amilacei consumati si è infatti ridotta notevolmente per via del cambio dello stile di vita. Anche la tipologia di prodotti amilacei consumati è cambiata, visto l’attuale ricorso a farine abburattate (ossia con ridottissimo contenuto in fibre dovuto alla rimozione della parte cruscale dopo la molitura) e il cambio dello stile di vita ha comportato un cambiamento di diverse patologie, non solamente quelle autoimmuni, tra cui quelle relazionate all’alimentazione. Le migliori condizioni di vita attuale hanno inoltre, fortunatamente, aumentato l’aspettativa di vita e ridotto in maniera drastica le morti in età infantile, soprattutto quando la presenza di morbo celiaco non diagnosticato può portare a morte.

Altro quesito che si legge spesso in rete è: “Mangiare senza glutine fa bene anche a chi non è celiaco?” Questa domanda è la conseguenza della grande pressione pubblicitaria e del martellamento mediatico che si sta osservando in Italia e un po’ ovunque nel mondo, nato dalla stravaganza di qualche VIP e dalla falsa promessa di perdere peso assumendo alimenti senza glutine, che ha portato ad una grande richiesta di prodotti senza glutine da parte del consumatore. Negli USA nel 2016 sono stati spesi per la vendita al dettaglio di alimenti senza glutine più di 15,5 miliardi di dollari e che in Italia, stando a una analisi di Coldiretti, si spendono 320 milioni di euro anno per prodotti senza glutine facendo registrare un aumento del 20% di vendite l’anno. Aggiungiamo che i ristoranti e altri luoghi di consumo che offrono ricette senza glutine sono saliti oltre il 58%. Un cambiamento di abitudini che – continua la Coldiretti – è stato riconosciuto anche dal paniere Istat che nel 2015 ha sancito l’ingresso della pasta e dei biscotti gluten-free per il calcolo dell’inflazione.

Ovviamente questo comportamento non ha alcun fondamento scientifico e sta provocando un uso inappropriato di alimenti speciali, prevalentemente su base auto prescrittiva, senza alcun iter diagnostico che lo giustifichi. La dieta senza glutine è fondamentale per una persona affetta da celiachia, ma non deve essere seguita senza motivo, come risultato di una moda, poiché è in questo caso inutile e potenzialmente dannosa. Non è “più leggera”, è non “dimagrante”, anzi spesso gli alimenti senza glutine hanno una composizione nutrizionale diversa rispetto ai corrispondenti per la popolazione generale. L’autoprescrizione di una dieta senza glutine inoltre complica la diagnosi di celiachia.

La European Society for Pediatric Gastroenterology, Hepatology and Nutrition nell’incontro tenutosi a Praga nel 2017 ha presentato il seguente comunicato: Scegliere alimenti senza glutine in assenza di una diagnosi di celiachia accertata da medici specializzati non è consigliabile: può fare aumentare il rischio di obesità e patologie cardiovascolari. Una dieta priva di glutine può determinare carenze nutrizionali a causa del minor contenuto di nutrienti negli alimenti privi di glutine, tra cui fibre alimentari, folati, ferro, niacina, vitamina B1 e vitamina B2. Il ridotto consumo di cereali integrali, e quindi di fibra alimentare, è stato collegato ad un incremento di coronaropatia.

C’è chi sostiene che i grani antichi siano anche più buoni di quelli moderni: il profumo del grano è più intenso e dà origine a prodotti più gustosi e saporiti. Tale affermazione non ha alcun senso se si considera che in commercio esistono specie diverse di frumento: tenero, duro, monococco, farro, spelta, T. turanicum e Tritordeum, ecc. e che per ciascuna di esse esistono varietà moderne e varietà antiche, è pertanto ovvio che esista una diversità di sapori tra i prodotti ottenuti con le diverse farine. Senza dimenticare poi che un grande ruolo nella definizione degli aromi e dei sapori dei prodotti a base di frumento dipende dal processo di trasformazione che hanno subito. Resta chiaro che se la scelta deriva da un fattore di gusto, nulla vieta di scegliere l’antico, con la consapevolezza però che non è una scelta legata alla salute.

In conclusione, quali grani è bene scegliere per la nostra salute? Quelli integrali indipendentemente se antichi o moderni. Il vero valore nutrizionale dei prodotti a base di cereali è la presenza di fibra alimentare che conferisce al prodotto tutta una serie di proprietà nutrizionali importanti per la salute. Aumenta il senso di sazietà, facilita la funzione intestinale, migliora la composizione della flora batterica intestinale, consente una migliore modulazione della glicemia e della colesterolemia perché attenua l’assorbimento dello zucchero e del colesterolo, è fattore di protezione nei confronti di molte forme tumorali che coinvolgono l’intestino.

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