Ora che il professor Conte deve sottoporre all’approvazione del presidente Mattarella il nome del ministro dell’economia e finanza, si impone che il dibattito sulla finanza pubblica, che è associata inevitabilmente alla figura del nuovo ministro dell’economia, tenga conto non soltanto dei nuovi flussi (disavanzi di bilancio) che alimenteranno il debito pubblico, ma anche il tema dello stock esistente del debito pubblico e della sua gestione. È necessario pertanto che I più garruli cantori dell’opportunità di finanziare nuove spese o riduzione di entrate in disavanzo, inopinatamente associate a immaginifici effetti moltiplicativi, tengano conto della più modesta contabilità tenuta dalla DGT (la Direzione Generale del Tesoro): ogni disavanzo deve essere contabilizzato e finanziato con una emissione di un corrispondente ammontare di titoli di stato.
Con parole più corrette si deve comunicare alla opinione pubblica che il disavanzo di bilancio è finanziato con il risparmio dei risparmiatori italiani e stranieri che sottoscrivono i titoli di stato: che si aggiungono allo stock preesistente dei titoli del debito pubblico. Nel caso dell’Italia deve essere sempre reso evidente che la colossale montagna del suo debito pubblico è finanziato da famiglie e imprese che hanno dato fiducia allo Stato di rimborsare il debito e di pagare qualche interesse. In altre parole, il debito dello Stato è ricchezza nel portafoglio dei risparmiatori che gli anno dato fiducia.
Ma fino a che punto della crescita dello stock del debito italiano i risparmiatori daranno fiducia allo Stato italiano? Non sarà che i fantasiosi chierici oranti per i nuovi disavanzi e autodefinitisi Keynesiani abbiano sottovalutato o trascurato del tutto il rischio di approssimarci al “momento Minsky”? Che prende il nome dalle analisi di uno dei più famosi e apprezzati economisti keynesiani seppure meno letti nelle nostre accademie? Autore di un saggio edito nella prima metà degli anni Ottanta, dal titolo profetico “Potrebbe ripetersi? Instabilità, e finanza dopo la crisi”.
Annotava infatti la relazione per l’anno 2008 della BRI sotto il titolo evocativo “fine della (impossibile) e corsa” che (pag.8) il “momento Minsky” coincide con “la presa di coscienza e di disimpegno” da parte degli operatori finanziari dalla stabilità finanziaria dei mercati, che, nel caso italiano potrebbe riguardare proprio il “disimpegno” dal rinnovo e dalla sottoscrizione dei titoli del debito pubblico: in particolare quando, tra non molti mesi, la BCE cesserà di stabilizzare il mercato dei titoli pubblici.
Serve ricordare, infatti, che, sottostante al rapporto debito pubblico-Pil, molti politici soi disant economisti trascurano che circa il 33 % del debito pubblico italiano è detenuto all’infuori dei confini nazionali con gran scorno dei sovranisti. Si aggiunga che la vita media dei titoli di stato, tutti denominati in Euro, è di 6,9 anni. Nella media ciò significa che ogni anno devono essere rinnovati alla scadenza, pena il default del debito pubblico, circa 350 miliardi di euro. Ciò impone al governo sovranista di mantenere e/o conquistare la fiducia dei detentori dello stock dei titoli del debito pubblico con parole di pietra non riassumibili in un twitter.
Infatti, se sulle leggi in difetto di copertura vigila la mano sapiente e severa del presidente Mattarella, esercitando la facoltà del rinvio alle Camere delle leggi irrispettose dell’articolo 81 della nostra Carta costituzionale, nel caso della gestione dello stock del debito pubblico sono le farneticazioni dei più garruli e incoscienti politici che, insieme alle inclinazioni antieuro e all’uscire da questo, possono avvicinarci pericolosamente al “momento Minsky”. In altre parole, è necessario che il futuro ministro dell’economia sia ben conscio che il problema più arduo è quello di mantenere le parole della politica non soltanto per cessare di illudere l’opinione nazionale, ma anche per non continuare a disorientare i mercati finanziari che ogni giorno votano la fiducia ai governi nazionali, con grande scorno dei sovranisti.