“La posizione del governo è netta e unanime. Non è in discussione alcun proposito di uscire dall’euro. Il governo è determinato a impedire in ogni modo che si materializzino condizioni di mercato che spingano all’uscita. Non è solo che noi non vogliamo uscire: agiremo in modo tale che non si avvicinino condizioni che possano mettere in discussione la nostra presenza nell’euro. Come ministro dell’Economia ho la responsabilità di garantire, su mandato del governo, che queste condizioni non si verifichino”. Così parlò Giovanni Tria in un’intervista al Corriere della Sera del 9 giugno 2018, pochi giorni dopo la costituzione del governo giallo-verde, nel quale era stato nominato – a sorpresa dopo la contrastata vicenda Savona – ministro dell’Economia.
Chi scrive restò colpito dalla nettezza di quelle affermazioni, tanto da chiedersi se l’amico Giovanni non avesse sbagliato governo e non fosse convinto di far parte dell’esecutivo presieduto da Mario Monti. Il passaggio chiave di quella dichiarazione stava nella consapevolezza che per uscire dalla moneta unica non è necessario che un Paese prenda direttamente l’iniziativa (anche perché non saprebbe quale procedura seguire); è sufficiente adottare politiche ed assumere comportamenti tali “da mettere in discussione” la presenza nell’euro.
In occasione della legge di bilancio 2019, il governo italiano – dopo mesi di bravate e di insulti nei confronti delle istituzioni europee che hanno provocato inutilmente danni alla stabilità del Paese – si è rassegnato a trovare un modus vivendi con la Ue, approfittando con cinismo di una rendita di posizione: l’Italia è troppo importante per la sopravvivenza dell’Unione e dell’euro. Questo governo lo sa e tende ad agire come un rapinatore che si presenta in una banca con uno zaino di esplosivo sulle spalle e che minaccia di farsi saltare insieme a tutto l’edificio.
Anche le agenzie di rating si sono rese conto della delicatezza della posizione dell’Italia, un Paese che ha un solo grave problema: un governo diretto da persone irresponsabili. Anzi, ormai i governi sono due, ognuno in regime monocratico, caratterizzato non solo da una frenetica e furiosa spartizione del potere, ma anche da una ripartizione esclusiva delle competenze: un fenomeno che, alla fine, sta portando alla paralisi dell’iniziativa, perché l’emergere di dissensi sulle politiche ha alimentato non le sintesi, ma l’esercizio reciproco del diritto di veto sulle proposte altrui.
Nel corso della campagna elettorale, il Capitano ha tenuto una linea di condotta di gravissima irresponsabilità. Il ministro degli Interni è una sorta di garante del buon andamento delle elezioni; non dico che dovrebbe essere super partes, ma un po’ di stile sarebbe stato utile e necessario. Salvini invece ha svolto una campagna elettorale “a strascico”, nel corso della quale, non solo ha contribuito ad alimentare i conflitti, ma ha rilasciato anche dichiarazioni – in modo estemporaneo e gratuito – che hanno procurato l’innalzamento dello spread e riaperto, nelle Cancellerie, negli organismi internazionali e nei mercati, la questione Italia. Ha trattato il problema della sterilizzazione dell’aumento dell’Iva per 23 miliardi (già disposto nella legge di bilancio) come se fosse una scommessa su di una corsa di cavalli ed ha annunciato di non curarsi affatto del 3% di Maastricht, ma che anzi sente il dovere di non rispettare quel tetto, per fare l’interesse degli italiani.
Salvini confida su di una vittoria elettorale che lo renda protagonista in Europa e in un esito del voto che premi le forze populiste, sovraniste, xenofobe e quant’altro potrà emergere ancora dall’immondezzaio della storia. E finge di non sapere che i suoi alleati, proprio perché nazionalisti come lui, si guarderanno bene dal fare sconti all’Italia. Molto dipende dal voto di domenica prossima. L’elezione del Parlamento europeo ha sempre avuto una valenza di carattere interno. Anche in quest’occasione i partiti giocano in casa.
Ma il risultato complessivo della consultazione sarà importante anche per gli indirizzi che dovrà assumere il nostro Paese. Una Commissione europea che sia espressione di una maggioranza composta dalle forze tradizionali, anche se un po’ malconce, sarà un caveat anche per la linea che il governo italiano dovrà seguire nell’appuntamento con la legge di bilancio 2020 (ricordate? Il 2020 era indicato come il termine di un programma di iniziative della comunità).
In sostanza, anche se sarà molto difficile, l’esecutivo dovrà venire a patti. Ma il rischio-Italia è molto elevato, nel senso che potrebbe verificarsi ciò che Tria voleva evitare: arrivare al punto di guardarsi attorno e trovarsi fuori. Da soli. Se così fosse dovremo aspettarci di tutto.