X

Gorbaciov seppellì il comunismo e fece cadere il Muro di Berlino: oggi il mondo lo rimpiange più dei russi

FIRSTonline

Nel 1994, quando arrivai a Mosca come corrispondente dell’Unità, giusto poche settimane prima che Eltsin mandasse i carri armati a Groznij, per iniziare una guerra ai ceceni che solo Putin, dopo più di dieci anni riuscì a concludere, Michail Sergejvic Gorbaciov era già il passato.

Non erano trascorsi che tre anni da quando la bandiera rossa era stata ammainata dal Cremlino e lui era stato costretto a dimettersi nelle mani del suo principale oppositore, Boris Eltsin appunto, ma già per i russi non esisteva più. E se proprio si insisteva nel fare qualche domanda a proposito del suo ruolo nel Paese e nel mondo, ti rispondevano a bassa voce, malvolentieri e come se si parlasse della persona che aveva provocato la più grande disgrazia che fosse capitata alla Russia.

Gorbaciov: amato all’estero, criticato in patria

La prova l’avemmo nel 1996, quando Gorbaciov provò a tornare sulla scena politica: alle elezioni riportò meno dell’1% dei voti. No, l’uomo che aveva seppellito il comunismo e il primo Stato socialista della Storia non era amato in patria. E non poteva esserlo: per colpa sua l’Impero sovietico non esisteva più e i russi erano impoveriti, umiliati, derisi. 

Glasnost? Perestrojka? Roba per occidentali. Perché la fine della censura, il diritto di manifestare, la pubblicazione di libri e giornali “proibiti”, erano tutte belle cose, ma non producevano benessere. E anche la ristrutturazione della economia non aveva condotto a nulla essendo le riforme parziali e le aperture al mercato timide.

Eppure, mai una volta Gorbaciov si era pentito di quello che aveva fatto.

Quel suo sogno di pace tradito dalla Russia di Putin

“La vita punisce chi arriva in ritardo”, aveva detto a Erich Honecker, leader della DDR, la Germania orientale, mentre i tedeschi correvano ad abbracciarsi da una parte e dall’altra del Muro. Perché Gorby, come lo chiamavamo tutti noi occidentali, era sul serio convinto che le aspirazioni alla libertà non potessero essere compresse per sempre. E che quindi polacchi, cechi, ungheresi e tedeschi dell’Est avessero diritto a una vita politica fuori dall’Unione Sovietica. 

E quindi? Perché è andato tutto storto? 

Lo ha detto lui stesso: mai si sarebbe aspettato che dopo la fine della Guerra fredda i leader occidentali, a partire dagli americani, non avrebbero colto l’occasione per ricostruire una nuova architettura della sicurezza in Europa e nel mondo. Dopotutto il “nemico” non c’era più, non sarebbe stato facile?

È solo di questo che si è lamentato nel corso di tutti questi anni: la Russia era tornata in Europa, perché non la si era accolta? E negli ultimi tempi più di una volta ha giudicato il revanscismo di Putin come figlio della Grande Umiliazione della Russia degli anni Novanta. Un’analisi, tuttavia, non una giustificazione: perché, come appare evidente, al contrario dell’attuale presidente, lui i cannoni e i soldati li aveva ritirati dai confini, non li aveva mandati. 

Poteva andare diversamente? Domanda irricevibile, come sempre nella Storia quando si immagina cosa sarebbe potuto accadere se…

Gorby e l’ardito disegno di una “casa comune europea”

Lui, Gorbaciov, ha sempre pensato e detto pubblicamente che per quel che riguardava la Russia, no, non si poteva fare altrimenti. Il sistema economico comunista messo in piedi dopo la Rivoluzione del 1917 e soprattutto negli anni successivi, era fallito nel confronto con quello capitalista, la corsa agli armamenti, infine, lo aveva messo del tutto in ginocchio. Bastava dare una spinta e tutto sarebbe crollato. 

Certo, la via cinese era stata un’altra ed è tutt’ora lì, a dimostrare che ci si può continuare a chiamare “comunisti” e seguire le leggi del mercato. Perché non Gorbaciov non l’ha seguita? Perché Gorby era un russo europeo, era impregnato degli ideali della Rivoluzione francese oltre che di quella d’Ottobre, e perché sognava per i “suoi” russi un destino e un cammino mescolato a quello di francesi, italiani, spagnoli, tedeschi, greci ecc.

L’arrivo di Gorby al Cremlino

È possibile che non gli fosse così chiaro l’11 marzo del 1985 quando si trovò alla testa del Pcus, succedendo a Kostantin Chernenko, l’ultimo dei gerontocrati, succeduto a sua volta ad Andropov, e questi a Brezhnev. Era stato proprio Andropov, potente capo del KGB prima di arrivare al Cremlino, a suggerire il nome di Gorbaciov, ma egli aveva dovuto aspettare un altro giro, poco più di 50 anni, era troppo giovane per la nomenklatura sovietica.  

La sua carriera fino a quel momento si era svolta tutta nella nativa regione di Stavropol, non lontano dalla Crimea.  

Il suo arrivo al Cremlino è un’autentica rivoluzione nei costumi di un leader del Pcus: compare in pubblico con la moglie Raissa, gira il Paese per raccogliere le opinioni di tutti, incontra migliaia di persone. 

Dice cose nuove, tipo che la Russia aveva bisogna di “accelerare” per recuperare il terreno perduto nei confronti dell’Occidente e che i russi devono riprendere a respirare.

La Perestrojka di Gorbaciov: un piano per l’impossibile riforma del comunismo

Per farlo Gorbaciov impianta la Perestrojka, che significa essenzialmente abbandono dell’egualitarismo, legare i salari al lavoro, incentivare la produttività. Fino ad allora la norma era stata questa: un cittadino russo era seguito dallo Stato dalla culla alla tomba. Certo, c’era sempre qualcuno “più uguale degli altri”, nello specifico i membri del Partito, ma grosso modo tutti erano assistiti: dall’asilo, all’università, al lavoro. Con le nuove leggi la responsabilità della propria vita tornava al singolo, se non in maniera completa, almeno in parte. È evidente che la cosa potesse dispiacere a qualcuno (a molti) dopo 70 anni di totale delega: non si impara a prendere nelle mani la propria vita dall’oggi al domani.  

Nello stesso tempo Gorbaciov trasforma anche la politica interna. Nei posti chiavi arrivano i riformatori come Eduard Shevardnadze che mette agli Esteri al posto di Andrej Gromiko, sopravvissuto ai tempi di Stalin. Mentre nel Pcus si attiva una specie di “corrente” interna, Piattaforma democratica, fino ad arrivare, nel 1990, all’abolizione dell’articolo 6 della Costituzione che stabiliva il ruolo guida del Partito nel Paese.  

Il mondo, nel frattempo guarda alla Russia con altri occhi: è un altro “disgelo” tipo quello di Krusciov nel 1956? O qualcosa di diverso?

Da Gorbaciov a Eltsin: la fine dell’Urss

La prima a mostrare fiducia in questo strano comunista è Margaret Thatcher. “Possiamo lavorare insieme”, concede. Reagan ci mette un po’ più di tempo, ma poi arrivano gli accordi sulla limitazione delle testate nucleari e quello sui missili intercontinentali. 

Però il tempo per Gorby è finito: in patria la resistenza della nomenklatura è fortissima e lui, invece di insistere sulla strada delle riforme, come gli chiedono Eltsin e Shevardnadze, inizia a frenare. Il programma dei Cinquecento giorni del giovane economista Grigorij Yavlinskij, che ha lo scopo di portare la Russia nell’economia di mercato, viene abbandonato per adottare un programma molto più moderato, applicato dopo gli attacchi dei conservatori. La riforma monetaria porta invece agli accaparramenti nei negozi con la conseguenza delle infinite code per recuperare qualche salsiccia, un po’ di zucchero, sapone, sigarette. Mentre la campagna contro la vodka gli aliena definitivamente le simpatie del popolo. 

Inizia così l’ascesa di Boris Eltsin che dopo essere stato silurato dal vertice del Pcus viene eletto trionfalmente alla presidenza del Soviet Supremo, il Parlamento.  

All’estero l’Impero nel frattempo si sfalda.

Il 1989 è l’anno fatidico: inizia la Polonia, con la vittoria di Solidarnosc; poi si aprono le frontiere dell’Ungheria; il 9 dicembre, viene abbattuto il Muro di Berlino. Intanto le tre repubbliche baltiche si ritirano dall’Urss.

Gorbaciov prova a incollare i cocci proponendo un nuovo Trattato dell’Unione con chi è rimasto. 

Ma la tempesta è sempre più vicina. Alla vigilia dell’accordo, il 19 agosto del 1991, i conservatori pensano di dare la spallata. Sulla carta sono fortissimi: c’è il Primo ministro, il ministro dell’Interno, il capo del Kgb.  Gorbaciov viene tenuto prigioniero in Crimea dove si trova in vacanza. Poi riportato a Mosca. Sembra la fine.

Tuttavia, il mondo è cambiato, Gorbaciov lo ha cambiato.

L’uomo che cambiò il destino dell’Unione Sovietica

Boris Eltsin sale su uno dei carri armati inviati dai golpisti per prendere il Parlamento, la Casa Bianca. E l’esercito non reagisce. Il colpo di stato è fallito. 

Però il potere ha cambiato di mano: oramai è del capo della Russia, e quando Gorbaciov tenta di rilanciare il Trattato, Eltsin prende l’iniziativa. 

Insieme ai presidenti di Bielorussia e Ucraina decide lo scioglimento dell’Urss: è l’8 dicembre del 1991, a Natale la bandiera sovietica viene ammainata dal Cremlino.

Related Post

E Gorby entra nell’oblio.

Finisce l’era di Gorbaciov

Negli anni di Putin Gorbaciov è riuscito a trovare un ruolo con la sua Fondazione, soprattutto di rappresentanza.

Dopo la svolta autoritaria però ha preso le distanze. Per esempio, acquistando, insieme con l’oligarca Aleksandr Lebedev, il giornale di opposizione, Novaja Gazeta, ora chiuso come tutti gli altri.

Di sicuro oggi il mondo rimpiange Gorbaciov più di quanto lo facciano i suoi compatrioti. 

Ma non è impossibile che i russi si ricredano nel futuro: è vero che gli anni della Umiliazione sono finiti e che sono tornati a essere temuti, ma a che prezzo?

Categories: Mondo