La grande bellezza del fair use
Il fair use è un principio bellissimo, un principio progressivo che spinge l’innovazione, penalizza le posizioni dominanti e democratizza la conoscenza.
Purtroppo al pari di tanti principi bellissimi, come il reddito universale di base, è stato rovinato da applicazioni sconsiderate, opportunistiche e irresponsabili che lo hanno infangato, seppellendo la sua ultima ratio sotto un ampio strato di terra. Difficile dissotterrarlo adesso. Il fair use è, in tempi di riflusso internettiano, percepito in gran parte come una forma, sia pur leggera, di pirateria.
Ma è tutt’altro! È il futuro. Per questo, andrebbe ampliato il suo campo di applicazione. Gesto oggi impossibile perché va a disintegrarsi contro il muro di una concezione manichea e maniacale del concetto di proprietà intellettuale; una concezione che avrebbe fatto venire il prurito anche a John Rawls, che non aveva niente contro la proprietà ma aveva ed ha molto da dire sulla giustizia.
Qualcosa si muove, nell’oscurità
Qualcosa però di buono inizia a vedersi grazie alla sentenza della Corte suprema americana, nel caso Google vs Oracle, presa con una maggioranza, di questi tempi, inusitata: 7 a 2 per il fair use. In Europa sarebbe stato 9 a 0 contro il fair use. Purtroppo in Europa non abbiamo più un Voltaire ad accendere un lume per mostrarci nelle tenebre la stupidità dell’ancien régime.
Ci vorrebbero davvero “Le lettere americane”!
Nella legislazione europea non abbiamo neppure il principio di fair use e neppure lo avremo mai a riprova della sudditanza allo status quo della cultura politica e giuridica del vecchio continente.
E succede che patrimonio intellettuale immenso, quale quello che l’Europa può avere, giace nell’oscurità per noncuranza o inazione dei proprietari (spesso si tratta editori o produttore scomparsi) o di chiunque possa lontanamente vantare un qualche improbabile diritto o addirittura alcuno. La sola congettura che possa essercene uno, iberna ogni iniziativa, anche negli ambiti dove il fair use è consentito.
Gli artisti, gli scrittori, i creativi, chi maneggia la cultura non può costruire sul costruito, non può agevolmente creare la moderna forma del mash-up senza fare i conti con un qualche ufficio legale molto aggressivo che tutela un qualche vacillante diritto. Non so se oggi si potrebbero mettere i baffi alla Gioconda senza andare in un qualche giudizio e farsi dare ragione.
Anche in un contesto più rilassato del nostro, come New York, un giudice ha riconosciuto che Andy Wharol ha violato il copyright usando una foto per il suo acrilico di Prince. Della storia di Wharol ci occuperemo in un prossimo post. Con il diffondersi della cultura della cancellazione e con il principio capillare della tutela della proprietà intellettuale i nostri musei di arte contemporanea diventeranno dei simulacri di calce.
Oltre il pubblico dominio
È vero c’è il pubblico dominio, ma il tempo di sottrazione al pubblico dominio si allunga sempre più e quando finalmente arriva (per le opere collettive quasi mai) spesso si è quasi completamente smarrita la memoria storica di quella conquista o di quel lascito intellettuale.
Il fair use è un antidoto contro il deperimento, l’oblio, l’omologazione, il cartesianesimo giuridico perché rimette in circolazione, sia pur in modo parziale, una creazione dell’intelligenza, la riconfeziona in un contesto moderno e sovente progressivo, lo offre a un pubblico potenzialmente nuovo e ne potenzia le possibilità di produrre ricchezza immateriale e materiale.
Se poi questa attivazione dell’inerto, del giacente, dell’emarginato, del congelato, del supercustodito genera un business, i benefici saranno distribuiti tra tutti quelli che ci hanno a che fare qualcosa; mica ci perdono niente a staccarsi una libbra della loro carne! Oltre a loro, sarà soprattutto la società a beneficiarne. Il fair use non ha assolutamente niente di comunardo, ma porta in sé un potenziale innovativo che è essenziale allo sviluppo delle nostre comunità. Il fair use non è bene comune, è qualcosa di fondante della società aperta.
E poi ci vuole un po’ di visione e di audacia. Sappiamo che la spontaneità può generare degli abusi, ma l’azione del fair use dovrebbe essere spontanea altrimenti si resta prigionieri nelle maglie di una stringente armatura legale e psicologica e dell’ancien règime.
Torniamo però alla sentenza della corte suprema americana sul caso Google vs Oracle. Una sentenza che va a impattare uno dei comparti cruciali per il nostro futuro, lo sviluppo del software e non solo di quello. Impatta anche tutta l’industria culturale e del divertimento.
Si possono usare le interfacce Java?
La Corte Suprema degli Stati Uniti si è espressa a favore Google in un caso storico per l’industria del software, stabilendo che Google non ha infranto la legge quando ha utilizzato il codice che genera alcune interfacce software scritte nel linguaggio Java (API), di reclamata proprietà di Oracle, nel sistema operativo Android.
La sentenza mette fine una battaglia legale decennale la cui posta attuale era un risarcimento danni superiore a 9 miliardi di dollari chiesto da Oracle a Google. Il caso ha anche sollevato questioni fondamentali che riguardano il rapporto di potere tra le piattaforme dominanti e nuovi arrivati nell’industria tecnologica.
I giudici hanno deciso per Google con una maggioranza di sette a due, con l’opposizione di due giudici conservatori Clarence Thomas e Samuel Alito. La Corte suprema ha riconosciuto che l’utilizzo da parte di Google delle API di Java era inscritta nella protezione del “fair use”. All’alba dell’industria degli smartphone Google aveva impiegato più di 11.000 linee di codice Java esistente per rendere il suo sistema operativo Android compatibile con il linguaggio Java, ampiamente utilizzato all’epoca. Successivamente Java era stato acquisito da Oracle.
L’uso dei pezzi di codice Java, noti come API (Application Programming Interface), avrebbe reso più facile per gli sviluppatori Java adattare i programmi esistenti al sistema Android.
Le tesi contrapposte
Google, che è il paladino del fair use pur avendone abbondantemente abusato, ha cercato di mettersi dalla parte dei concorrenti emergenti nell’industria tecnologica, sostenendo che la libertà di utilizzare le interfacce, che richiedono un poderoso lavoro di sviluppo, era importante nella competizione delle start-up con le grandi piattaforme tecnologiche consolidate.
Per questa ragione le API non dovrebbero ricevere la protezione legale che, invece, copre la maggior parte del codice del computer, in quanto sono un “metodo operativo essenziale”, come il pedale dell’acceleratore in un’automobile. Bizzarro paragone che, comunque, è stato completamente accolto nella opinione di maggioranza della Corte suprema scritta al giudice Stephen G. Breyer (nominato da Bill Clinton). Inoltre, sostiene Google, il fair use consente un uso limitato di materiale protetto da copyright.
Oracle e i suoi sostenitori hanno visto in questo caso la dimostrazione più evidente che aziende grandi e potenti, come Google, possono appropriarsi del codice altrui perché sono in grado di mettere in campo la capacità legale necessaria a schiacciare gli sfidanti. La maggior parte delle aziende non può permettersi il costo e l’incertezza di mettere su una lunga causa in difesa del fair use.
La tesi della corte
La corte ha deliberato solo sul punto del “fair use”, lasciando insoluta la questione dello status legale delle API. I giudici hanno stabilito che Google ha usato “solo quelle linee di codice che erano necessarie per permettere ai loro programmatori di sviluppare il loro talento collettivo per costruire un sistema nuovo e trasformativo”. La Corte Suprema ha essenzialmente approvato l’operato di Google nel prendere le API e integrarle in un software innovativo del quale tutti possono beneficiare.
Beh sembra una motivazione altamente sensata che va nella direzione giusta.
Infatti scrive Shira Ovide sul “New York Times” la decisione ha portato un forte sollievo nell’industria tecnologica, anche tra coloro che non sono fan di Google. Inoltre presenta un risvolto assai rilevante per artisti, scrittori e operatori culturali.
Si era infatti diffusa la preoccupazione che le piattaforme consolidate potessero impedire ai rivali di usare le API o esigere prezzi esorbitanti per usarle, con la conseguenza di scoraggiare l’inventività e l’innovazione.
Le possibili ripercussioni della sentenza
I giudici hanno quindi abbracciato una visione ampia del diritto legale al fair use. Hanno affermato il concetto che se si estraggono testi o immagini appartenenti ad altri e si aggiunge abbastanza della propria creatività, non è necessario ottenere il loro permesso o pagare un diritto d’uso.
Resta il fatto che stabilire se un estratto cada sotto l’eccezione del fair use può essere complicato e anche abbastanza soggettivo. Per esempio, di recente, un tribunale in Manhattan ha stabilito che un’immagine di Prince ripresa da Andy Warhol per un suo dipinto non era un “fair use” della fotografia originale di Lynn Goldsmith. Beh, Wharol poteva anche permettersi di riconoscere qualcosa a Goldsmith o fargli una telefonata. Questo è un caso un po’ particolare, anche se costituisce un precedente pericolosissimo per la causa del “fair use”
Il giudice supremo Breyer, nella sua opinione di maggioranza, ha scritto che quando si considera l’applicabilità del fair use, i tribunali non dovrebbero guardare solo alle questioni tecniche delle due parti coinvolte nel caso, ma pensare più in grande, valutare, cioè, se l’utilizzo incriminato porta un qualche beneficio alla società.
La sentenza, e soprattutto le sue motivazioni, potrebbe procurare una maggiore protezione legale ad artisti, a creativi e a sviluppatori.
Insomma il futuro dell’industria tecnologica è più nei parlamenti e nei tribunali che nei garage o negli open space di Palo Alto.
Questa sentenza rivoluzionaria della corte americana è destinata a sanzionare questo passaggio in modo definitivo.
E noi in Europa che facciamo? Siamo ibernati. Chissà quando arriverà un Voltaire ad accendere un falò con le sue “Lettere americane”.
Fonti:
Richard Water, US Supreme Court rules for Google in $9bn Oracle battle, The Financial Times, 6 aprile 2021
Shira Ovide, Google won. So did tech, The New York Times, 6 aprile 2021