Dopo la bomba sganciata da Donald Trump sul settore auto con l’annuncio sui dazi di ieri, per le case automobilistiche è il momento di prendere una decisione: localizzare una maggiore produzione negli Stati Uniti, farsi carico dei costi dei dazi o scaricarli sui consumatori?
Ferrari per esempio, che produce tutte le sue auto in Italia ha dichiarato che aumenterà i prezzi di alcuni modelli fino al 10%. Ma mentre i clienti del Cavallino Rampante, che gravitano nel circuito del lusso, possono sopportare un rincaro, per i consumatori medi il peso è molto più consistente e l’auto potrebbe tornare a essere un lusso.
La speranza di mercati, costruttori e investitori è che l’amministrazione a stelle e strisce si renda conto che a essere penalizzati saranno anche i medi consumatori Usa e che quindi decida di alleggerirne la portata. Mercoledì Trump ha annunciato nuove tariffe che entreranno in vigore il 3 aprile sulle automobili e sui ricambi auto provenienti da Asia ed Europa, nonché su quelli provenienti da Canada e Messico. I dazi canadesi e messicani saranno i più dannosi per la maggior parte delle case automobilistiche, che dipendono da questi paesi confinanti non solo per una parte della loro produzione, ma anche per una larga quota dei componenti che utilizzano per assemblare le auto.
Un’auto tutta americana non esiste: metà viene dall’estero
Alla base della mossa di Trump di imporre dazi su tutte le auto importate prodotte all’estero e su vari componenti automobilistici, c’è l’obiettivo di aumentare la produzione nazionale del settore e quindi ridurre i prezzi. Ma non sarà così. Le automobili costruite nelle fabbriche statunitensi saranno comunque colpite dai dazi. Questo perché non esiste un’auto tutta americana, come sottolineano alcuni esperti interpellati dalla Cnn: tutte le 10,2 milioni di auto costruite nelle fabbriche statunitensi l’anno scorso sono state costruite con un numero significativo di parti importate, principalmente da Canada e Messico. Il contenuto interno medio è stimato prudentemente solo al 50% ed è probabilmente più vicino al 40%. Quindi, un’auto “americana” che costa 40.000 dollari per essere costruita potrebbe essere colpita da 5.000 dollari di tariffe perché metà delle sue parti proviene da altri paesi.
I prezzi delle auto Usa saliranno anche del 25%. E ci sarà meno disponibilità
La preoccupazione più grande è che i dazi inneschino una corsa dei prezzi delle auto negli Usa dove sono già saliti negli ultimi anni fino una media di 48 mila dollari a vettura. Dinamica che ha fermato il mercato rendendolo ancora più stagnante. Nel 2024 gli Usa hanno importato 290 miliardi di dollari in auto, prevalentemente da Messico, Giappone, Canada ed Europa, e 179 miliardi in componenti.
Le stime sull’impatto delle nuove tariffe sui costi di produzione variano tra 3.500 e 12.000 dollari o più per veicolo, a seconda del modello, secondo l’Anderson Economic Group, un think tank con sede nel Michigan. John Bozzella, capo dell’Alliance for Automotive Innovation, un’associazione di settore che rappresenta colossi come General Motors, Ford, Toyota, Volkswagen, Hyundai e Stellantis, ha dichiarato che “tutte le case automobilistiche saranno colpite dai dazi”. Di conseguenza, il prezzo di alcuni modelli potrebbe aumentare anche del 25%, incidendo anche sulla disponibilità e sull’accesso per i consumatori. Oltre ai prezzi di produzione occorrerà vedere, lungo la filiera, come verranno definiti i prezzi delle auto nelle trattative tra concessionario e acquirente finale.
L’altro impatto importante sui prezzi potrebbe derivare da una disponibilità di automobili notevolmente inferiore. È probabile che le case automobilistiche riducano la produzione di auto in attesa di vedere se le tariffe si rivelino di breve durata. E già una fornitura ridotta, da sola, può far aumentare i prezzi. È quello che è successo nel 2021, quando la carenza di chip per computer ha causato profondi tagli alla produzione di automobili, con conseguente aumento dei prezzi sia delle auto nuove (+17%) che di quelle usate (+32%). Questa volta l’impatto potrebbe essere simile. “Se i dazi saranno applicati, prevediamo interruzioni a praticamente tutta la produzione di veicoli nordamericana, per un ammontare di 20.000 veicoli in meno prodotti al giorno, il che equivale a circa il 30% di riduzione della produzione”, ha detto alla Cnn Jonathan Smoke, economista capo di Cox Automotive, durante una conferenza stampa mercoledì. “In conclusione, una produzione inferiore, un’offerta più limitata e prezzi più alti sono dietro l’angolo, come nel 2021”.
Da non dimenticare i dazi su acciaio e alluminio
Sebbene i dazi sull’acciaio e sull’alluminio non aumenteranno immediatamente i costi delle case automobilistiche grazie ai contratti a lungo termine con i fornitori, è probabile che invece ciò accada più in là, anche se si acquistassero dai produttori americani. Sia la General Motors che la Ford hanno stimato che l’aumento dei costi delle materie prime in seguito all’imposizione di tariffe canadesi sull’acciaio e sull’alluminio nel 2018 è costato loro più di 1 miliardo di dollari all’anno ciascuna. I prezzi dell’acciaio americano sono già aumentati del 30% o più negli ultimi due mesi, secondo Phil Gibbs, analista dell’acciaio per KeyBanc. I prezzi dell’alluminio sono aumentati di circa il 15%.
Spostare la produzione negli Usa? Un miraggio di Trump
Ma anche l’idea di Trump che i dazi porteranno le case automobilistiche a spostare la produzione di auto e le loro catene di fornitura nelle fabbriche americane non è nemmeno lontanamente realizzabile, dicono gli esperti del settore. “Se costruisci la tua auto negli Stati Uniti, non ci sono tariffe”, ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale “e molte aziende aumenteranno la produzione interna mentre altri verranno nel nostro paese e stanno già cercando siti. Uno stabilimento a cui Trump fa riferimento è quello di Honda in Indiana, che ha detto sarà tra i più grandi in assoluto. Ma Honda ha confermato di non aver annunciato alcun piano del genere.
L’obiettivo di Trump sembra essere ben lontano dalla realtà: non è qualcosa che si può fare semplicemente premendo un interruttore nel breve termine. “Le case automobilistiche stanno subendo molti costi e molto caos per le minacce tariffarie di Trump” ha detto il CEO di Ford Jim Farley a una conferenza degli investitori sottolineando che non ha intenzione di costruire nel breve nuovi impianti.
Ciò è dovuto anche al fatto che le imposte intermittenti di Trump non forniscono la certezza di cui le case automobilistiche hanno bisogno per investire miliardi di dollari in nuovi stabilimenti. “Ci sono troppi interrogativi sul futuro della politica commerciale per prendere questo tipo di decisioni in questo momento” ha detto il CFO della General Motors Paul Jacobson. Riportare la produzione non è economicamente fattibile anche per altri motivi. Già ora le aziende, appena uscite dalla crisi della supply chain, sono vicine alla loro massima capacità e nuovi investimenti avrebbero bisogno di tempi molto lunghi. Ci vogliono anni per attuare politiche di questo tipo. Stellantis, che produce automobili in Nord America con i marchi Jeep, Ram, Dodge e Chrysler, ha accettato di riaprire uno stabilimento chiuso a Belvidere, Illinois, come parte di un accordo per porre fine allo sciopero del 2023 della United Auto Workers. Ma quello stabilimento non riaprirà prima del 2027.
Le case automobilistiche non sono ancora sicure quali tariffe saranno permanenti e quali sono semplicemente una “tattica negoziale”, ha detto l’ex CEO della Ford Mark Fields in un’intervista alla CNBC. “La maggior parte dei consigli di amministrazione aspetterà che la situazione si diradi”.
Tuttavia Auto Volvo, Audi, Mercedes-Benz e Hyundai della Volkswagen hanno dichiarato che trasferiranno parti della loro produzione negli Usa.
L’impatto su Tesla
Non è escluso dai dazi trumpiani neanche il braccio destro del presidente, Elon Musk. Sul suo social X, il super miliardario ha fatto sapere che “per esser chiari, questo influirà sul prezzo dei componenti delle auto Tesla che provengono da altri Paesi. L’impatto sui costi non è banale”. Secondo Bloomberg, l’azienda di Musk è tra i pochi vincitori della guerra commerciale scatenata da Trump.
Ferrari alzerà i prezzi, ma ai suoi clienti non dispiacerà più di tanto
Per Ferrari i dazi non sono un problema. Non ha certo intenzine di spostarsi da Maranello. Ciò che farà è aggiornare la sua politica commerciale. “Le condizioni commerciali rimarranno invariate per gli ordini di tutti i modelli importati prima del 2 aprile 2025 e per gli ordini delle seguenti tre famiglie – Ferrari 296, SF90 e Roma – a prescindere dalla data di importazione” ha detto la casa del Cavallino Rosso. “Per i restanti modelli, le nuove condizioni doganali si rifletteranno parzialmente sul prezzo, fino ad un massimo del 10% di aumento, in coordinamento con la nostra rete di distribuzione”. Alla sua clientela, che gravita nel mond del lusso, un aumento di questo tipo incide poco.
Gli effetti su Europa e Italia
“Siamo profondamente preoccupati, ammette in un comunicato Acea, l’Associazione europea dei costruttori di automobili. “le tariffe addizionali arrivano in un momento spartiacque per la trasformazione del nostro settore mentre aumenta la feroce competizione internazionale”. I costruttori ricordano al presidente Usa di aver investito per decenni, creando posti di lavoro, promuovendo la crescita economica delle comunità locali e generando enormi entrate fiscali per il governo statunitense. Un messaggio che vuole ribaltare la narrazione trumpiana sui Paesi che per “secoli” hanno strappato agli Stati Uniti “milioni di dollari”. “Esortiamo il presidente Trump a considerare l’impatto negativo delle tariffe non solo sulle case automobilistiche globali, ma anche sulla produzione nazionale statunitense – il monito di Acea –
le tariffe non avranno solo un impatto sulle importazioni negli Stati Uniti, una sanzione che è probabile che i consumatori americani paghino, ma le misure sulle parti automobilistiche danneggeranno anche le case automobilistiche che producono automobili negli Stati Uniti per i mercati di esportazione”.
In Italia si producono modelli che vengono esportati all’estero, in parte anche negli Usa. D’altronde una delle gambe del gruppo Stellantis è statunitense e in Italia si producono alcuni modelli Jeep, come Compass e Renegade nello stabilimento di Melfi, oppure la Dodge Hornet a Cassino. E poi c’è la 500 a Mirafiori. Si tratta di veicoli, soprattutto Compass e Renegade, che sono alla fine del loro ciclo. Incertezza anche nel mondo della componentistica. Non è chiaro quali saranno i sistemi colpiti e in che modo. Si tratta di una torta importante: fino a novembre 2024 le esportazioni verso gli Usa arrivano a 1 miliardo e 159 milioni, soprattutto nelle componenti meccaniche. Una quota del 5% rispetto alle esportazioni totali del comparto a livello mondiale.
L’auto tornerà a essere un lusso?
Negli anni ’50, mentre l’Italia faticosamente usciva dalla guerra, l’auto era un acqusisto tanto ambito, quanto molto impegnativo. Il costo di un’auto variava in base al modello e alla marca. Volendo prendere ad esempio una Fiat 500, che fu l’auto simbolo dell’Italia in quel periodo, costava intorno ai 500.000 lire all’inizio degli anni ’50. Questo rappresentava un notevole impegno economico, considerando che lo stipendio medio di un lavoratore si aggirava intorno alle 50.000-60.000 lire annue, quindi circa 8-10 volte lo stipendio annuale medio.
Oggi il prezzo di una 500 varia tra i 15.000 e i 20.000 euro, quello di una Panda tra 13.000 e i 18.000 euro. Con i rialzi tariffari i prezzi potrebbero arrivare a circa 25.000 euro, a fronte di uno stipendio medio lordo annuo si aggira intorno ai 30.000 euro nel 2023.