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Globalizzazione, la sfida che l’Occidente non sa più governare

La globalizzazione non governata ha prodotto ricchezza ma ha sconvolto gli equilibri sociali dell’Occidente mettendo in crisi le classi dirigenti – La rivoluzione tecnologica può essere l’occasione per uscire dall’angolo, a condizione che…

Globalizzazione, la sfida che l’Occidente non sa più governare

La discussione sul futuro delle economie e delle società occidentali è, da qualche tempo, all’ordine del giorno nell’agenda del mondo accademico degli Stati Uniti. Mai, come in questo periodo, importanti riviste di politica internazionale, si pongono il problema del nuovo assetto geopolitico che si andrà a definire partendo da un bilancio di ciò che è stato e di cosa ha prodotto la globalizzazione mondiale e di ciò che produrrà la rivoluzione tecnologica che sta letteralmente trasformando la società con una rapidità inimmaginabile solo qualche anno fa.

“La storia non ci dice nulla sul futuro se non che ci sorprenderà” è la conclusione alla quale arriva Stephen Kotkin, professore di storia e affari internazionali alla Princeton University New Jersey e presso la Hoover Institution della Stanford University, in un interessante e articolato saggio pubblicato sulla rivista americana Foreign Affairs dal titolo “Realist World – The Players Change, but the Game Remains”.

È proprio così. Nella realtà, nella storia del mondo, cambiano i giocatori ma il gioco non cambia. Il cambio dei protagonisti, frutto delle contrapposizioni che segnano ogni epoca storica, produce nuovi assetti economici, politici e culturali con i quali la storia dell’umanità procede.

Ogni epoca e ogni sistema economico-politico viene considerato l’ultimo e si pensa che non ci sarà nulla di diverso in futuro. Al contrario il procedere della storia avanza attraverso un processo ordinato e continuo o attraverso strappi più o meno improvvisi che appunto, possono “it will surprise us” definendo, comunque, nuovi equilibri che non è detto siano più avanzate.

Gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali vivono oggi uno dei passaggi più complicati delle loro storie. Le crisi che attraversano non sono però, come accadeva in passato, frutto di squilibri e scontri tra le stesse potenze o anche tra democrazie avanzate e Paesi del cosiddetto “terzo mondo”, come pure è stato, ma hanno una origine tutta interna. Le loro classi dirigenti, infatti, nel secolo scorso hanno guidato e favorito un lento ma imponente processo di globalizzazione che ha prodotto una vasta mobilità sociale, un progresso economico e culturale, realizzando un avanzamento delle condizioni di vita di tutto il mondo.

Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno lavorato intensamente per creare un mondo aperto con un commercio sempre più libero e un’integrazione globale sempre più ampia. È vero, la globalizzazione ha prodotto certamente ricchezza. Ha accorciato le distanze rendendo possibili ingenti investimenti delle economie più avanzate in quelle più arretrate aumentando l’efficienza economica, riducendo i costi di produzione e aumentando i rendimenti assoluti. Tutto ciò ha avuto un effetto positivo riducendo le disuguaglianze a livello globale e rendendo possibile a milioni di persone di uscire dalla povertà più assoluta. Risultati davvero straordinari se si guarda a come è cambiato il mondo nel corso degli ultimi settant’anni. Tutto bene allora? Non proprio.

Mentre quel processo di globalizzazione avanzava, riducendo le disuguaglianze a livello mondiale, all’interno di quei Paesi che hanno guidato la stessa globalizzazione, soprattutto a cominciare dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, accadeva esattamente il contrario. La disuguaglianza interna si accentuava prima lentamente e poi sempre più marcatamente con effetti economici e sociali negativi creando una nuova “periferia del mondo” che, a differenza di quella conosciuta nel secolo precedente, non ha una connotazione di carattere geografico ma economica e sociale e diventa “periferia interna”.

Di conseguenza quelle stesse classi dirigenti che hanno guidato il processo di globalizzazione vengono, oggi, considerate dai propri popoli responsabili non solo dell’arretramento economico e sociale ma anche di quello culturale. Vengono considerate élite distanti da un popolo sempre più disilluso. Si è diffuso un sentimento di tradimento politico interno e, dunque, quella classe dirigente è oggi diventata molto vulnerabile.

La sfida politica di massa, dal “basso” della società, basata su un nazionalismo diventato maggioritario, risulta vincente in quasi tutto l’Occidente a cominciare dagli Stati Uniti, passando per la Gran Bretagna fino ad arrivare anche in Italia. Il fenomeno è stato accentuato anche dal fatto che la globalizzazione, intervenendo inevitabilmente anche su un terreno culturale ha prodotto la perdita dei valori etici e culturali diventati sempre meno sicuri e più relativi.

Un vero e proprio senso di “estraniazione culturale” si è diffuso producendo, nelle popolazioni del mondo occidentale, in quelle “periferie interne”, mancanza di punti fermi, solitudine e paura. Paradossalmente l’Occidente, proprio nel momento in cui vinceva e rendeva evidente la propria supremazia economica e culturale nello scacchiere globale facendosi carico del problema delle disuguaglianze mondiali, si scopriva estremamente fragile e, nella crisi di identità e di valori, si trovava anche a dover affrontare la più dura crisi economica della sua storia.

Ne è una controprova quello che, parallelamente, è accaduto in Cina. Un Paese con un assetto politico istituzionale dal basso tasso di democrazia, un Paese sostanzialmente autoritario nel quale meritocrazia e corruzione, competenze e incompetenza, convivono mescolandosi, una classe politica che non si è certo interessata alle sorti del mondo per contrastarne le disuguaglianze, ha realizzato uno sviluppo economico di dimensione e rapidità mai visto prima arrivando ad avere un’economia sostanzialmente allo stesso livello, in termini di ricchezza, pari a quella della Stati Uniti e, in futuro, forse anche maggiore. Ora, se è senz’altro vero che l’ascesa degli Stati Uniti non sarebbe stata possibile senza la debolezza della Cina, è altrettanto vero che la corsa della Cina non sarebbe neanche iniziata senza la sicurezza e l’apertura dei mercati frutto della politica statunitense dopo la Seconda Guerra mondiale.

La crisi evidente che stanno attraversando le classi dirigenti non è, dunque, priva di una spiegazione né la si può gestire con un atteggiamento elitario e snobistico considerandola semplicemente il frutto di un non meglio definito “populismo” che si sarebbe impossessato come un virus del popolo, ma è il frutto di scelte politiche che concentrandosi su alcuni obiettivi hanno trascurato gli effetti di quelle scelte. Oggi, la rivoluzione tecnologica può essere una buona opportunità per uscire dall’empasse che vive l’Occidente ma a condizione che le sue nuove classi dirigenti ritrovino il modo per far beneficiare di tale progresso le proprie popolazioni riscoprendo la validità e la profondità dei valori della propria cultura.

 

°°° L’autore è il Segretario Generale dell’Associazione Nazionale fra le Banche Popolari

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