L’esaltazione acritica del combinato tra neoliberismo e globalizzazione che ha dominato il pensiero accademico e che ha guidato le scelte delle autorità economiche e monetarie internazionali, negli ultimi decenni del secolo scorso, è messa sempre più in discussione soprattutto dall’interno di quelle stesse autorità. Le stime di crescita che, non solo in Italia, vengono riviste sempre al ribasso, dopo gli anni della recessione e della crisi economico finanziaria, stanno producendo una riflessione critica forse ancora non abbastanza adeguata ma senz’altro apprezzabile.
In una recente intervista, Carlo Cottarelli – che smessi i panni di responsabile italiano della spending review è, oggi, direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale – intervenendo sullo stato di salute dell’economia, afferma chiaramente che in Europa esiste un problema di domanda insufficiente e manca un piano di investimenti pubblici a livello continentale. La inadeguatezza dei risultati, lontani da quelli sperati, del Quantitative Easing, voluto e ribadito dalla BCE di Mario Draghi – secondo l’economista del Fmi – è dovuta, da un lato, a non aver abbinato ad esso politiche nazionali espansive e dall’altro all’eccessiva regolamentazione delle banche, con i vari “Basilea”, e la richiesta continua di più capitale per erogare maggior credito che determina una permanente variabilità e incertezza di scenari e politiche da adottare. Ai bassi tassi di interesse, che rendono difficile la raccolta del capitale, si aggiunge una regolamentazione esagerata che spesso muta troppo rapidamente. Nella stessa intervista vengono criticate anche le modalità che hanno visto, fin qui, imporsi la globalizzazione che se in Europa è stata troppo veloce facendo perdere al Vecchio continente produzione e ricchezza anche a causa del mercato del lavoro troppo rigido, negli Stati Uniti, con un mercato del lavoro meno rigido, ha provocato un impoverimento e una riduzione del ceto medio da sempre motore dei consumi. Dunque, una globalizzazione che se non è messa in discussione nelle sue fondamenta lo è per le modalità con le quali si è realizzata: velocità e disomogeneità delle diverse economie.
Un altro principio cardine che ha ispirato le scelte economiche ed pienamente interno allo schema alla globalizzazione neoliberista è quello dell’austerità. In questo caso assistiamo oggi ad una, seppur ancora debole e timida, critica di quello che era diventato un postulato intoccabile. In realtà già nel 2013, Olivier Blanchard, allora capo economista e direttore del dipartimento per la ricerca economica del FMI, aveva intitolato una sua ricerca “Errori revisionali di crescita e moltiplicatori fiscali”. Dati alla mano spiegava come i moltiplicatori impliciti nelle previsioni, il rapporto cioè tra riduzione del deficit pubblico e crescita dell’economia, erano sbagliati perché sottostimati di circa un’unità. Il che significa che ogni taglio del deficit ha compresso la crescita in misura maggiore (di una volta e mezzo in più) di quanto previsto. Un errore previsionale notevole con conseguenze preoccupanti. L’errore è stato in qualche modo “giustificato” dal fatto che i moltiplicatori erano stati calcolati prima della crisi e quindi non avevano tenuto in considerazione i fattori straordinari a questa legati (tassi di interesse vicini allo zero, risorse inutilizzate, consumi legati ai redditi presenti e non a quelli futuri). Dalla presa d’atto dell’errore però non ne è conseguita, come sarebbe stato auspicabile, una inversione di tendenza e si è continuati a fare dell’austerità una priorità assoluta che ancora oggi è difficile da mettere in discussione. Tanto che Blanchard paga ora questa sua posizione anche in termini di un riconoscimento internazionale importante come il Premio Nobel. Tutti i pronostici davano il francese favorito ma, all’ultimo momento, con una decisa virata, il Nobel è stato assegnato al britannico Hart e al finlandese Holmström per aver sviluppato, come si legge nella motivazione, “la teoria dei contratti, uno schema esauriente per analizzare molte diverse problematiche dell’architettura contrattuale, come la retribuzione basata sulla performance per i top manager, le deduzione e le coretribuzioni nelle assicurazioni e la privatizzazione delle attività del settore pubblico”. Ogni commento è superfluo! Una richiesta di ripensamento delle politiche di austerity, del resto, viene dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama che, pochi mesi fa, presentando la sua finanziaria per il 2016 come una finanziaria di svolta ha potuto affermare, rivolgendosi non solo gli americani ma al mondo intero e soprattutto all’Europa che è “l’ora di pensare alla crescita, di tornare a spendere per le famiglie e per gli investimenti”.
I danni che ha prodotto il rapido diffondersi della globalizzazione che abbiamo conosciuto, accentuati dalle politiche di austerity, necessitano, dunque, di un ripensamento profondo quanto radicale. Una vera e propria svolta che è in corso e non è ancora compiuta, ma che è sicuramente destinata a essere benefica e che apre la via alla ricerca odierna. L’atto d’accusa più forte contro la globalizzazione è stato lanciato più volte all’economia, alla politica e alle istituzione dall’autorevole cattedra di Papa Francesco. Le politiche economiche che bisogna mettere in campo per favorire la ripresa economica devono avere altre priorità rispetto al passato. Devo assicurare una crescita occupazionale soprattutto tra i giovani, devono promuovere un modello sostenibile.
Proprio Obama, rivolgendosi qualche giorno fa al suo successore, ha affermato che “il capitalismo forgiato da pochi e irresponsabile nei confronti dei più costituisce una minaccia per tutti” al contrario “il perfezionamento della nostra unione richiede tempi ben più lunghi. Per ricostruire appieno la fiducia in un’economia in cui gli americani che lavorano sodo possono far strada occorre far fronte a quattro grandi sfide strutturali: rilanciare la produttività, contrastare l’aumento delle disuguaglianze, garantire che chiunque lo desideri trovi un lavoro e costruire un’economia resiliente, pronta alla crescita futura”. Obiettivi che la globalizzazione e le politiche di austerità non solo non hanno aiutato a raggiungere ma che al contrario hanno pericolosamente allontanato.