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“Gli Usa non troveranno nessun guadagno da un’Europa chiusa e debole. Ecco a cosa punta Trump”: parla l’ambasciatore Castellaneta

Intervista a Giovanni Castellaneta, diplomatico di lungo corso, già ambasciatore negli Stati Uniti, in Iran e in Australia: “I dazi producono un effetto domino e alla fine non vince nessuno”. Il ruolo di Macron e di Starmer, le possibili mosse della Germania di Merz e il futuro dell’euro-atlantismo

“Gli Usa non troveranno nessun guadagno da un’Europa chiusa e debole. Ecco a cosa punta Trump”: parla l’ambasciatore Castellaneta

Never waste a good crisis, non sprecare mai una buona crisi, dicono i grandi negoziatori e gli uomini d’affari. In questo caso è un imperativo per l’Unione europea, che deve parare gli inattesi colpi in arrivo dagli storici alleati statunitensi dopo l’insediamento di Donald Trump. I leader europei, dopo il sussulto del NextGenerationEu, si sono comportati quasi da nottambuli: non hanno visto l’emergere di una profonda crisi industriale, hanno completamente sottostimato gli effetti delle politiche green sull’automotive e hanno sostanzialmente subito la guerra energetica con la Russia.

In giro per le cancellerie del vecchio Continente, soprattutto a Bruxelles, si avverte però la consapevolezza che i prossimi passi della Commissione Von der Leyen II saranno realmente cruciali, come spiega in questa intervista a FIRSTonline Giovanni Castellaneta, diplomatico di lungo corso, ambasciatore negli Stati Uniti, in Iran e in Australia e tra i fondatori con altri diplomatici dell’International Strategic Network, società specializzata in consulenza economica internazionale.

Ambasciatore Castellaneta, la nuova Amministrazione Trump non sembra curarsi per nulla delle vecchie regole del gioco delle relazioni internazionali.

“Donald Trump è sulla scena politica americana ormai da più di 8 anni, la sua linea di pensiero è continua. Semplicemente conferma quello che ha sempre pensato e dichiarato. La differenza rispetto al primo mandato riguarda l’organizzazione della sua squadra di governo e soprattutto la sua conoscenza del deep state e delle strutture del potere vero che stanno a Washington Dc. Per rimanere nel campo della politica internazionale ricordiamoci che Trump è un esperto uomo d’affari, temprato nell’arte delle furbizie di decenni di negoziati. Tutto quello che dice non è tutto quello che fa”.

Molti osservatori avevano previsto il disimpegno in Ucraina e il contestuale pieno sostegno ad Israele. Ma gli attacchi all’Europa sono parsi davvero forti, ha dichiarato addirittura “nata per fregarci”.  Da dove arriva questa avversione di Trump per l’Europa?

“Non penso ci sia un astio verso l’Europa, tra l’altro ha anche dichiarato di recente una lontana origine europea. Nella sua mente c’è un’idea di un’Europa che ha approfittato di una sorta di arrendevolezza commerciale degli Usa, di un’Europa che ha esportato molto più di quanto ha comprato, che non ha speso per la sua Difesa quanto avrebbe dovuto. Giusto o sbagliato, questo è il pensiero di Trump e con questo bisogna fare i conti. L’altra questione è il suo stile comunicativo a cui dovremo di nuovo abituarci: Trump vuole stare sempre nelle prime righe dei network comunicativi globali”.

Al netto delle strategie mediatiche, che tipo di relazioni euro-atlantiche ha in mente Trump?

“Innanzitutto mi sembra non secondario che si rivolga all’Europa come unico interlocutore. Trump ha stilato una scala di priorità: nell’immediato vuole la cessazione dei conflitti in Ucraina e in Medioriente, guerre che toccano da vicinissimo la politica e l’economia europea. In prospettiva si occuperà della Cina, direi in un’ottica di pura competizione economica, al punto che potrebbe essere pronto anche a sacrificare qualcosa, per esempio Taiwan, pur di avere una maggiore forza contrattuale con Pechino su altri dossier strategici. A margine c’è la Russia: chiudendo la ferita ucraina, per Trump in prospettiva Mosca dovrà essere attirata più nell’alveo europeo che in quello cinese. Ha già fatto cenno ad un ritorno di Mosca nel G8”.

Trump non sogna dunque un’Europa più fragile e divisa, all’interno di un ritorno alle negoziazioni bilaterali con gli Stati membri?

“Donald Trump è un realista puro, perché prima di tutto è un uomo di business. Sa che il processo di integrazione europea è irreversibile e che la stessa questione ucraina alla fine compatterà le democrazie europee. Sulla rinegoziazione di alcune grandi partite commerciali con l’Europa la posizione degli Usa è però destinata a cambiare. Per questo mi sembra maturo il tempo di riprendere il progetto di un Consiglio euro-atlantico dove discutere di grandi aspetti economici strategici, come avviene nella Nato per le questioni militari”.

Sui dazi colpirà l’Europa allo stesso modo della Cina?

“I dazi per natura producono un effetto domino, non vince nessuno. Dopo una prima fase di studio, fatta di provvedimenti su singoli settori, si arriverà ad un maxi pacchetto di misure commerciali che comprenderà oltre alle nuove tariffe aggiornate, accordi sulla tassazione ai colossi tech, accordi per acquisti a lungo termine nel settore della Difesa, normative sull’utilizzo di licenze e brevetti”.

Nei nuovi scenari che ridisegneranno la presenza economica e militare negli Usa nel mondo, a cosa gioverebbe un’Europa debole?

“È questo il punto. Gli Stati Uniti non troverebbero guadagni da un’Europa debole e chiusa, una sorta di ‘torre’ commerciale che difende solo il suo mercato interno. È altrettanto vero, però, che negli ultimi 50 anni gli Stati Uniti hanno progressivamente perso la loro poderosa forza manifatturiera, a favore prima dell’Europa e poi della Cina. Le grandi eccellenze che danno il primato economico agli USA oggi sono la ricerca tecnologica, l’ICT, la finanza e il business collegato al soft power americano. Per paradosso: oggi gli americani non sarebbero più in grado di produrre una grande nave in una sola settimana, come avveniva a metà del secolo scorso, non per la mancanza di capacità tecniche e tecnologiche ma per la difficoltà di reperire maestranze e strutture in grado di farlo nel suolo americano”.

Trump ha vinto dicendo chiaramente che avrebbe lavorato per reindustrializzare gli Stati Uniti, anche nei settori a minor valore aggiunto.

“Il rientro negli Usa di una parte di quella manifattura industriale che nei decenni scorsi è stata delocalizzata nel mondo globalizzato darebbe lavoro e reddito ad una parte del corpo elettorale che lo ha votato. La Rust Belt, un tempo il cuore della potenza industriale americana, è oggi impaurita, sicuramente impoverita, in grado di dare poco lavoro ai suoi abitanti. Trump, promettendo un nuovo futuro produttivo, ha ridato a milioni di cittadini americani una speranza per il futuro. A noi europei le disuguaglianze economiche e di reddito negli Usa appaiono molto meno profonde di quanto realmente sono”.

Nella testa di Trump e del suo entourage non c’è forse un’idea di fondo dell’Occidente molto diversa da come lo abbiamo concepito negli ultimi decenni? Basato sulla centralità di grandi democrazie che si governano – faticosamente – con lo stato di diritto, con le regole economiche, con il diritto internazionale.

“In questa fase Trump è molto impegnato sul fronte economico, per cercare di capire qualcosa di più ideologico bisogna seguire il suo numero due. Molto significativo è stato, infatti, il recente discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza di Monaco. Più che per l’Occidente, Vance dice che il pendolo della storia recente negli Usa si è spostato troppo a sinistra e che questa Amministrazione riporterà le posizioni governative su sponde più conservatrici, forse anche inedite rispetto al passato del Partito Repubblicano. Che tra l’altro non si sa se esista ancora”.

Tornando alla sponda europea, la Francia di Macron sta cercando di riallineare un minimo di coesione comunitaria da contrapporre al ciclone Trump&Musk: dazi, dialogo con gli inglesi, spese militari, una posizione unitaria sull’Ucraina.

“Macron sta sfruttando una grande occasione per tornare in prima linea. Sul piano internazionale lo può fare grazie allo status di leader dell’unica nazione europea nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e di una potenza nucleare. La strategia di agganciare la Gran Bretagna ad un progetto di costruzione di difesa continentale è una evoluzione importante per l’Europa, gliene va dato atto. Forse non vedremo a breve gli Stati Uniti d’Europa, ma sicuramente più coraggio nell’integrazione”.

“L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni date a queste crisi”, scriveva quasi 50 anni fa Jean Monnet. È questa la crisi giusta?

“Direi di sì, rispetto ai contenuti delle crisi che hanno investito l’Europa negli ultimi 15 anni. La necessità di avere una politica estera e di sicurezza comune sta diventando parte del discorso pubblico in parti non piccole dell’elettorato europeo. Se un tempo le questioni europee erano relegate ai diplomatici e ai giornalisti, oggi grazie anche ai social network gli elettori discutono di temi che un tempo sarebbero stati impensabili. Beninteso, con tutti i limiti che contraddistinguono il flusso di informazioni che circola sui social network. Resta il fatto che oggi si parla di Europa, nel bene e nel male, molto più di ieri”.

I democristiani tedeschi hanno vinto le elezioni lo scorso weekend: sarà probabilmente una Grosse Koalition con i socialisti a formare il nuovo governo. La Germania sarà troppo occupata a risolvere i problemi strutturali della sua economia o Friedrich Merz troverà la forza anche per una proiezione europea?

“La politica estera è sempre di più una leva anche per risolvere i problemi politici domestici. Il naturale riavvicinamento che ci sarà tra la Francia e Germania, tra Merz e Macron, sarà utile per l’Europa. E a seguire la ripresa della Germania sarà un grande sollievo anche per noi italiani. È nel nostro interesse che ci sia una Germania forte”.

Le relazioni profonde tra Stati Uniti, Europa e gli stati membri dell’Unione, il cosiddetto euro atlantismo, investono questioni e partnership quasi vitali, pensiamo agli insediamenti militari. I rapporti euro-atlantici superano le fortune dei leader o questa volta c’è qualcosa di diverso?

“La politica estera evolve con la storia e con il passare del tempo. Qual è il dato inedito oggi? La generazione al comando negli Stati Uniti non ha più quell’attrazione emotiva verso l’Europa, in parte legata alle vicende della Seconda guerra mondiale, che avevano le leadership precedenti, sia repubblicane che democratiche. Rimane certamente un’unione profonda, il cosiddetto euro-atlantismo che è sia culturale che strategico, ma è destinato a diluirsi nel tempo, soprattutto per il venir meno delle affinità etniche che un tempo univano europei e americani. La società statunitense è sempre meno lo specchio della vecchia Europa, gli anglosassoni, i tedeschi, gli italiani, gli irlandesi, i polacchi sono superati dal peso e dal dinamismo demografico dei nuovi cittadini americani di origine messicana, latina, centroamericana, cinese, orientale. La demografia cambia la struttura delle classi dirigenti e di conseguenza anche la politica estera”.

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