Come diceva il generale De Gaulle, l’Italia “non è un paese povero, è un povero paese”. Un paese che non si sa governare, non è lungimirante, preda di insicurezze che pensa di contrastare affidandosi spesso a capipopolo che offrono ricette tanto semplicistiche quanto irrealistiche.
L’indagine storica può chiarire quali sono le cause profonde del ristagno della nostra economia, e gli economisti possono indicare il modo di tornare alla crescita. La nuova edizione del libro di Pierluigi Ciocca, storico ed ex Vicedirettore generale della Banca d’Italia, (Ricchi per sempre? Storia economica d’Italia dal 1796 al 2020 – Bollati Boringhieri) prolunga il precedente lavoro fino alle soglie di quest’anno. Non parla direttamente della crisi economica scatenata dal Covid-19, dei problemi e delle opportunità che può aprire per il nostro Paese, il quale spesso riesce a reagire solo dopo aver subito crisi devastanti come nel secondo dopoguerra.
E tuttavia la lezione che scaturisce da una storia dell’economia ricca di dati e di illuminanti spiegazioni su alcuni dei passaggi più critici del nostro passato, è di pienissima e urgente attualità. Se il nostro premier, l’avvocato Giuseppe Conte, prima di annunciare alcuni generici propositi sul rilancio nel sua conferenza stampa, avesse dato una scorsa al libro di Ciocca, avrebbe sicuramente potuto precisare meglio le ricette necessarie a spezzare il circolo vizioso che tiene il paese immobile. Siamo chiamati, dice Ciocca, ad un generale “incivilimento”, culturale, istituzionale, politico e quindi economico, un impegno che richiede la mobilitazione della volontà della stragrande maggioranza dei cittadini, ma che si può ottenere solo offrendo un quadro di pensiero e degli obiettivi concreti chiari e attraenti.
Il penultimo capitolo del libro è significativamente intitolato “Perché la nostra crescita ha progressivamente rallentato fino ad arrestarsi del tutto”. Ciocca esamina quelle che a suo parere sono le cause remote e recenti che hanno minato il corpo sociale nel profondo, frattura che a sua volta ha penalizzato le potenzialità di crescita. Le principali vanno addebitate ai Governi e alle imprese. Ma di pari importanza sono le cause di contesto che attengono alla politica, alle istituzioni ed alla cultura.
Come premessa va chiarito che le idee di qualche guru o gruppo politico, circa l’opportunità di rallentare la crescita del PIL in nome di una supposta migliore “qualità” della vita in assenza di sviluppo, sono ritenute da Ciocca completamente errate. L’Italia ha ancora tanti bisogni collettivi ed individuali da soddisfare, tante diseguaglianze da attenuare, tanti squilibri territoriali da ridurre, che solo con la ripresa di un più sostenuto tasso di crescita, sarà possibile affrontare.
È sicuro, e la storia lo dimostra , che il nostro paese non può illudersi di essere ricco per sempre e quindi se non vuole tornare povero, dovrà modificare parecchie cose del suo modo di essere. Nel lungo elenco di problemi da affrontare metterei al primo posto la questione culturale. Infatti la cultura media nazionale appare divergente e spesso conflittuale con il sistema capitalistico basato su aziende in concorrenza sul mercato, che ci siamo dati, a partire dall’Unità e ancora con più chiarezza nel secondo dopoguerra. Abbiamo lasciato degenerare la scuola e l’università dove non solo i diplomati ed i laureati sono pochi, ma anche la loro qualità è scadente. Il 20% dei giovani tra i 18 e i 24 anni in possesso di un diploma possono definirsi “diplomati ignoranti”. Scandaloso è poi il conflitto che si è sviluppato tra insegnanti giustamente rigorosi e genitori lassisti, fino a sfociare in vere e proprie aggressioni ai professori.
Ma larga parte della cultura nazionale è sostanzialmente anti mercato ed anti impresa. Lo si vede dal fatto che l’ordinamento giuridico italiano rimane distante dalle esigenze delle aziende. La stessa Costituzione definisce vagamente il ruolo dell’imprenditore, mentre l’ordinamento giudiziario non solo ha tempi incompatibili con quelli aziendali, ma la stessa interpretazione delle leggi è soggetta a troppe incertezze tra i vari tribunali. La stessa cultura istituzionale è minata da una sfiducia di fondo nei confronti della politica alla quale si chiedono solo favori singoli e non regole semplici e chiare a livello generale.
La recente crisi sanitaria ha messo in risalto la confusione dei poteri tra centro e periferia, la scarsa capacità dei partiti di elaborare un progetto strategico per il paese, la lentezza della macchina burocratica da anni infiltrata dalla politica senza tener in alcun conto i criteri di efficienza e di efficacia.
Al degrado culturale del Paese ha contribuito anche l’informazione. Ciocca scrive alcune frasi molto severe sul ruolo della informazione, non solo dei social, ma di giornali e TV dove dei professionisti avrebbero dovuto spiegare le complesse vicende della società italiana invece di trasformarsi spesso in partigiani di questo o quel partito o gruppo di potere. Perdendo così autorevolezza e credibilità e lasciando la pubblica opinione senza punti di riferimento. Eppure le pagine di Ciocca potrebbero offrire una massa di informazioni e spunti di riflessione molto utili per giornalisti che volessero essere adeguatamente informati.
Gli errori delle politiche dei vari governi che si sono avvicendati negli ultimi quaranta o cinquant’anni sono numerosi e gravi. Il primo è quello di essersi illusi che la spesa pubblica potesse sostenere lo sviluppo. Invece non solo ha progressivamente portato all’arresto della crescita ma non è servita nemmeno a conservare il consenso degli elettori verso chi elargiva pensioni o bonus.
Anche le imprese sono giudicate da Ciocca con severità. Dopo la crisi del ‘92 non sono state più in grado di mantenere un adeguato ritmo di investimenti e di innovazione tecnologica. Hanno preferito rifugiarsi nella svalutazione della lira o, quando poi è arrivato l’Euro, nei benefici che la politica riusciva ad elargire con la scusa di compensare le diseconomie esterne o per tenere in piedi aziende fuori mercato.
Dall’analisi di Ciocca esce con chiarezza un quadro che ha visto il progressivo distacco dell’intera classe dirigente (politica, ma anche imprenditoriale e professionale) dai problemi strategici del paese . Questo spiega in larga parte le ragioni di una frattura tra popolo ed élite, che è ben lontana dall’avviarsi a ricomposizione. I soggetti politici nuovi che hanno sostituito quelli della prima repubblica godono di una fiducia legata alla possibilità di ottenere qualche beneficio immediato, quindi instabile. Gli imprenditori stanno provando a cambiare registro: puntano su un progetto strategico e non sul prendere qualcosa dalle casse dello Stato. I sindacati stentano ad avviarsi su nuove strade. Ad un Bentivogli della Fim-Cisl che si batte per affrontare il nuovo, la CGIL ha contrapposto Landini che si è affermato come leader nella battaglia contro la modernizzazione contrattuale voluta da Sergio Marchionne in Fiat.
Abbiamo in un modo o nell’altro fatto emigrare le grandi aziende. Non piacciono né alla destra né alla sinistra. Le piccole hanno l’affanno. Ma non osano crescere visto il clima punitivo del nostro ordinamento giuridico e culturale. Per rifare l’Italia dovremmo partire la una vera rivoluzione culturale. Ma per accorciare i tempi, occorre nel frattempo organizzarsi affinché sorga una vera forza politica liberale, (l’unica che nella nostra esperienza politica è mancata, tranne forse il decennio giolittiano) aperta ad un mercato ben regolato, capace di impegnare il paese in una sfida per mantenere, ed anzi accrescere i livelli di benessere che i nostri padri e nonni ci hanno assicurato.