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Gli emergenti tornano interessanti, ma con giudizio

ImagoEconomica

Luigi Einaudi diceva che gli investitori hanno un cuore di coniglio, gambe di lepre e memoria di elefante. Il suo intento era quello di promuovere una finanza sana e di evitare, nella difficile situazione del secondo dopoguerra, furbizie e colpi di mano da parte di governi che avrebbero potuto essere tentati da ristrutturazioni del debito, vie di fuga inflazionistiche o riforme monetarie a sfondo confiscatorio.
In realtà le cose non stanno sempre così.

La finanza comportamentale ci insegna che molti sono restii a scappare dagli investimenti sbagliati e a tagliare in tempo le perdite (le gambe non sono quindi da lepre). Quanto alla memoria di elefante, qualche volta funziona e qualche volta no. Ci sono emittenti, in America Latina e non solo, che in due secoli hanno ripudiato o ristrutturato il loro debito più di dieci volte e che comunque riescono ogni volta a fare dimenticare il loro passato e a convincere qualcuno, a volte molti, a prestare loro soldi di nuovo. Un po’ di belletto e un tasso più alto e il gioco è fatto.

In un certo senso è giusto che sia così. Se la memoria fosse davvero di elefante nessuno comprerebbe a tasso negativo i titoli di un paese, la Germania, che in un secolo ha fatto default dopo una guerra, ha azzerato il valore del risparmio con l’iperinflazione e poi, dopo un’altra guerra, ha fatto una riforma monetaria intelligente che è però costata ai suoi cittadini, attraverso mezzo secolo di patrimoniale, metà della loro ricchezza. Ma la vita deve continuare e, a un certo punto, le pagine vanno girate. Oggi ci siamo del resto già dimenticati di quasi tutte le paure che hanno agitato i mercati in gennaio e febbraio. Nessuno passa più notti insonni a seguire la borsa di Shanghai o l’andamento del renminbi. Agli analisti non viene più chiesto di calcolare le probabilità di una recessione globale, ma di fornire elenchi di titoli e materie prime da acquistare per impiegare l’eccesso di liquidità nei portafogli.

Questo clima rilassato è in buona parte reso possibile dal fatto che le banche centrali, almeno loro, non si sono affatto dimenticate di quello che è successo in gennaio e febbraio (e che già si era visto in agosto) e sanno che bisogna darsi parecchio da fare per evitare che accada di nuovo. Ora, se è vero che solo gli storici sapranno valutare quanto la strategia complessiva del dopo 2008 sarà stata davvero efficace, difficilmente si possono avere dubbi sulla capacità quasi virtuosistica dei policy maker di puntellare, guadagnare tempo, mettere pezze e tirare avanti.

Questa capacità l’abbiamo vista all’opera nell’ultimo mese in modo chiaramente coordinato. La Cina, che aveva promesso di non fare più ricorso a stimolanti a lungo andare tossici ha ingoiato tutto il boccettino delle vecchie pillole (ancora credito alle imprese statali, altre infrastrutture) mescolandolo però con un nuovo farmaco meno dannoso e più adatto ai tempi nuovi (il credito al consumo). Il Giappone ha archiviato il temutissimo aumento dell’Iva e ha promesso di dedicarsi di nuovo con slancio all’attività che lo ha tenuto in piedi nell’ultimo quarto di secolo, la spesa pubblica. L’Europa si è impegnata a sostenere il credito (sperando di trovare aspiranti debitori) e a fare un quantitative easing che non abbia come obiettivo l’indebolimento dell’euro.

L’America, per chiudere il cerchio, ha proclamato con la Yellen la sua volontà di non fare più salire il dollaro e di permettere così alla Cina, dalla quale eravamo partiti nel ragionamento, di non svenarsi di riserve valutarie per difendere il renminbi. Tecnicamente è un piccolo capolavoro. Il mondo è salvo un’altra volta, anche se dovrà usare bene il tempo che ha guadagnato se non vorrà ritrovarsi presto al punto di partenza. In questo nuovo clima di ritrovata pace tra mercati e banche centrali il piatto del giorno è costituito dagli emergenti. Il dollaro bloccato nel suo rialzo fornisce infatti un pavimento alle materie prime. La ripresa delle materie prime, a sua volta, è abbastanza forte da ridare colore ai paesi produttori come Brasile e Russia, ma non così forte da costituire un problema per gli emergenti importatori come Cina, India e Turchia.

Gli emergenti hanno dalla loro parte anche le basse (o comunque non alte) valutazioni, gli elevati rendimenti, i cambi equilibrati e il fatto di essere ormai sottorappresentati nei portafogli. Se consideriamo poi la maggiore cautela da parte della Fed nell’alzare i tassi sgombriamo il campo dalla maggiore preoccupazione per chi investe in emergenti.  Non va infine dimenticato che anche sul piano politico il momento peggiore per questi paesi potrebbe essere alle spalle. La Russia vedrà prima o poi un addolcimento delle sanzioni economiche europee.

La Turchia, grazie alla questione dei rifugiati, ha ripreso a godere di una particolare attenzione europea che si concretizza in aiuti economici e aperture agli scambi commerciali. In Brasile il processo di cambiamento politico sta prendendo velocità (il Sud Africa è più indietro ma Zuma è ormai sorvegliato a vista). L’Argentina è in piena svolta positiva, mentre il populismo chavista ha perso ogni forza propulsiva in tutta l’America Latina. Sul fronte orientale Arabia Saudita e stati satelliti sono impegnati in un processo positivo di autoriforma economica, mentre l’Iran è ogni giorno meno lontano dai mercati internazionali. India e Messico, dal canto loro, si confermano paesi politicamente stabili e con buoni tassi di crescita.

Detto questo, vorremmo mettere in guardia da eccessi di entusiasmo. Sugli emergenti è sempre infatti difficile trovare giudizi equilibrati e si alternano periodi di euforia (come è stato nel decennio scorso) con fasi di totale rifiuto (crisi asiatica, decennio attuale). Non dimentichiamo che, solo due mesi fa, i mercati scontavano default a catena di paesi produttori di materie prime. Andando più in dettaglio, la ripresa delle materie prime, da cui parte tutto il discorso sugli emergenti, sarà verosimilmente molto graduale e modesta. Guadagnare sul cambio dei paesi esportatori non sarà impossibile, ma l’apprezzamento delle loro valute non sarà assolutamente spettacolare.

La svalutazione degli anni scorsi, questa sì notevole, ha permesso di ridurre il disavanzo delle partite correnti (ad esempio in Brasile e Turchia) ma non si è tradotta in pareggio o surplus, ma semplicemente in un disavanzo più piccolo e gestibile. Anche i tassi di crescita rimarranno storicamente bassi. L’alluvione di credito al consumo degli anni scorsi lascerà il posto a un lento e faticoso processo di riduzione dell’indebitamento delle famiglie. Il reddito pro capite brasiliano, che era di 12mila dollari tre anni fa e che oggi è sceso a 8700, sarà di 8500 nel 2025. In pratica (sono stime di Bank of America) la popolazione crescerà più velocemente del reddito e passerà i prossimi anni a restituire i debiti, non a farne di nuovi.

Per fare un altro esempio, la Russia ha certamente retto meglio del previsto alla debolezza del petrolio e del gas grazie ai grandi contratti di fornitura alla Cina e grazie alla pazienza della sua popolazione che ha accettato una riduzione del potere d’acquisto dei salari. Non per questo sarà facile creare un’economia diversificata e meno dipendente dal petrolio. In passato gli emergenti ci hanno abituato a fasi di euforia in cui si poteva contemporaneamente guadagnare sul cambio, godere di un carry positivo sui bond e portare a casa un capital gain su bond e azioni. Oggi, passata la fase di recupero in corso, sarà più difficile guadagnare su tre fronti. Sarà però ben possibile, contando su valute stabilizzate, godere in relativa tranquillità di rendimenti correnti molto elevati o di dividendi altrettanto corposi staccati da azioni certamente non care. L’alternativa, ricordiamolo, sono i rendimenti sempre più vicini a zero o sotto zero di casa nostra.

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