Come era ampiamente previsto, la svizzera Glencore International, il numero uno delle trading companies mondiali, ha lanciato la propria offerta amichevole nei confronti della mineraria Xstrata, di cui già controlla il 34% e il cui quartier generale è nello stesso piccolo e ricco cantone, quello di Zug, anche se gli assets sono in Sudafrica, Australia, Canada, America latina, Asia.
Il matrimonio minerario del secolo si farà, ma forse Glencore dovrà concedere qualcosa di più agli azionisti della società da acquistare: 2,8 nuove azioni per ogni titolo di Xstrata (questa la proposta odierna) significa mettere sul piatto circa 26 miliardi di sterline, più o meno 41 miliardi di dollari, quindi un premio del 16-17% rispetto ai valori di borsa dei giorni scorsi.
Troppo poco, dicono già i fondi d’investimento come Standard Life Investment e Schroeders Plc, se si considera che in altre fusioni avvenute nello stesso settore il premio si era aggirato intorno al 22-23%. Una resistenza è probabile anche perché Xstrata porta in dote il 65% degli assets del nuovo gruppo, mentre i suoi azionisti avranno “solo” il 45% della Glencore Xstrata International, questa la ragione sociale scelta per il gruppo che comparirà nei listini del London Stock Exchange e della borsa di Hong Kong.
Resta anche aperta la questione del nulla osta da parte delle autorità antitrust dei vari paesi in cui operano le due società. Di fatto l’unione tra una grande mineraria e la più importante casa commerciale crea una forza contrattuale notevolissima. Rischiano di farne le spese per primi gli acquirenti giapponesi di carbone termico, un combustibile necessario al dopo-Fukushima e di cui Xstrata è il primo produttore e Glencore il principale vettore. Però sarà difficile trovare un appiglio per ostacolare il nuovo gruppo: Xstrata è già numero uno mondiale nel thermal coal e nei minerali di zinco e piombo, mentre è tra i primi 4 produttori di rame e di nickel.
Con Glencore, può contare su una rete distributiva capillare e su qualche impianto che non altera il quadro internazionale oppure che può facilmente essere ceduto ad altre società. Tra questi, una quota della miniera di nickel di Murrin Murrin, la kazaka Kazzinc e altre. Un punto interrogativo che preoccupa l’Italia è Porto Vesme, dove una controllata di Glencore ha il 100% del polo zincifero, situato proprio nelle vicinanze degli impianti dell’alluminio, che la statunitense Alcoa ha già deciso di chiudere.
La situazione a livello globale comunque non era molto diversa nemmeno ieri, quando Glencore aveva il 34% di Xstrata. Infatti le economie di scala che nasceranno dalla fusione sono calcolate intorno a 500-600 milioni di dollari all’anno, una cifra non esagerata. Basta paragonarla al fatturato della nuova società, che a regime non dovrebbe essere inferiore a 209 miliardi di dollari all’anno.
Il comunicato odierno scioglie anche un altro dubbio sul futuro vertice: come chief executive sarà insediato Mick Davis, 53 anni, sudafricano di nascita, attuale ceo di Xstrata, mentre il presidente sarà Ivan Glasenberg, 55 anni, anch’egli sudafricano di nascita, oggi ceo di Glencore.
Ammesso che la fusione vada in porto, prevedibilmente entro l’anno, sarà la più grande nella storia mineraria, battendo i 38 miliardi di dollari che Rio Tinto versò nel 2007 per rilevare Alcan, la regina canadese dell’alluminio. Il primato però potrebbe essere sorpassato presto da un altro affare multimiliardario: resta infatti aperta la corsa verso Anglo American, un boccone ricco, che completerebbe il ventaglio di minerali e metalli di Glencore Xstrata, grazie alle proprietà di Anglo nei comparti del minerale di ferro, del platino e dei diamanti.