Condividi

Glaciazione demografica: 2,4 milioni di occupati in meno nel Nord Italia. Lombardia e Veneto le più colpite

Secondo l’ultima nota della Fondazione Nord Est, la glaciazione demografica diminuisce di 3,2 milioni le persone in età di lavoro entro il 2040 e di 2,4 milioni i lavoratori. Ciò si traduce in drammatiche carenze di occupati nelle grandi regioni settentrionali

Glaciazione demografica: 2,4 milioni di occupati in meno nel Nord Italia. Lombardia e Veneto le più colpite

Meno abitanti uguale meno lavoratori. Un’equazione molto semplice. Sì, ma quanti lavoratori in meno? In questa Nota la Fondazione Nord Est offre la stima più recente realizzata in Italia. Lo fa per tutte le regioni settentrionali. È la seconda analisi della miniserie di quattro sulle dimensioni e sulle conseguenze della glaciazione demografica, e sulle misure alternative per attenuarne l’impatto.

L’orizzonte temporale scelto è al 2040, come fatto nella prima nota sulla popolazione. In materia di andamenti demografici è una scadenza ravvicinata e sulla quale poco incidono le scelte riproduttive che verranno fatte, perché i nati oggi non avranno compiuto allora che sedici anni, un’età ancora scolare (a maggior ragione se osserviamo l’allungamento del periodo di istruzione in un contesto di economia della conoscenza). Quindi sono persone che non entreranno ancora tra quelle occupabili.

Le previsioni sul numero di persone occupate sono, come quelle sulla popolazione, al netto dei flussi migratori interni (ossia prevalentemente dalle regioni meridionali) e internazionali (sempre più dall’Africa), in modo da isolare le conseguenze dei comportamenti riguardo alla natalità delle popolazioni settentrionali. Solo così, infatti, è possibile condurre l’operazione chiarezza che è lo scopo di queste quattro note della Fondazione Nord Est. Un’operazione che è necessaria per rendere coscienti famiglie, imprese e amministrazioni, centrali e locali, e adottare in modo consapevole le politiche, private e pubbliche, necessarie a mitigare l’impatto della glaciazione demografica.

Il passaggio dalla popolazione prevista (in diminuzione di 2,3 milioni in tutto il Nord Italia nel 2023-2040) all’occupazione attesa non è automatica, ma passa attraverso tre stadi. Il primo stadio è quello dalla popolazione totale alla popolazione in età di lavoro. Il secondo stadio è la determinazione della percentuale di persone in età di lavoro che effettivamente lavorerà. E, infine, il terzo stadio è l’applicazione di questa percentuale al numero di persone che hanno l’età per lavorare; solo quest’ultimo stadio non richiede speciali ipotesi, ma è un normale calcolo.

L’età lavorativa è stabilita a livello internazionale, come convenzione normativa e statistica, ed è compresa nella fascia 15-64 anni. Quindi, in prima istanza basterebbe sapere quante persone ci saranno nel 2040 con un’età compresa in tale fascia. Tuttavia, il prolungamento degli studi ritarda l’ingresso nel mercato del lavoro e spinge a spostare all’insù la forchetta. 

La scelta cade su 20-64 anni, anche per ragioni di semplificazione della stima. Perché ciò che qui interessa è avere un ordine di grandezza altamente probabile, piuttosto che un numero preciso ma molto più aleatorio. 

Le persone in età di lavoro diminuiscono di 3,2 milioni

Il risultato è disarmante: le persone in età di lavoro scendono di 3,2 milioni nel Nord Italia tra il 2023 e il 2040, pari a un quinto di quelle del 2023. Un numero nettamente superiore al calo della popolazione per una semplice ragione: le coorti che entrano in quell’età sono molto più piccole di quelle che escono, e per queste ultime finisce la fase lavorativa, non la vita. Il 70% della flessione avviene nel prossimo decennio, non solo perché di questo restano sette anni ma perché gli effetti della denatalità si faranno sentire maggiormente.

In Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna i cali più forti

La graduatoria per dimensione assoluta di perdita vede in testa la Lombardia (-1,1 milioni), seguita da Veneto (-588mila), Piemonte (-530mila) ed Emilia-Romagna (-519mila). In proporzione ai valori attuali, invece, in testa c’è la Liguria (-26%), poi nell’ordine Friuli-Venezia Giulia (-23%), Piemonte e Valle d’Aosta (-22% entrambe) e Veneto (-21%). Un quadro comunque molto preoccupante.

Ampie differenze regionali nei tassi di occupazione: in testa l’Alto Adige, in coda la Liguria

Quante di quelle persone in età lavorativa effettivamente saranno occupate? Il secondo stadio della stima consiste proprio nello stabilire la percentuale di occupati sulla popolazione in età lavorativa, che è chiamato tasso di occupazione. L’ipotesi meno arbitraria è quella di mantenere costante l’attuale tasso di occupazione per l’età 20-64 anni. Al Nord il tasso di occupazione è più elevato della media italiana, ma ci sono non piccole differenze; tra il massimo della Provincia di Bolzano, al 79,6%, e il minimo della Liguria, al 72,2%, fanno 7,4 punti percentuali che equivalgono a 62mila occupati in meno nei territori rivieraschi, mentre se tutto il Nord si adeguasse all’Alto Adige ci sarebbero quasi 800mila occupati aggiuntivi. Il Veneto è allineato alla media.

AAA 2,4 milioni di lavoratori cercasi. Lombardia e Veneto più colpite

I calcoli della Fondazione Nord Est sul numero di occupati si basano sul tasso di occupazione della fascia di età 20-64, la stessa usata per stimare la popolazione in età di lavoro nel 2040.

Nel 2040 ci saranno 2,4 milioni di lavoratori in meno di oggi nel Nord Italia. Le perdite maggiori si registreranno in Lombardia (-804mila), Veneto (-442mila), Piemonte (-378mila) ed Emilia-Romagna (-390mila). D’altronde sono le regioni con i livelli occupazionali più elevati, essendo anche quelle più grandi fisicamente ed economicamente. La prospettiva cambia se si valuta il calo in termini percentuali: avanti a tutti Liguria (-26%), poi Friuli-Venezia Giulia (-23%) e Valle d’Aosta (-22%). Il Veneto va un po’ peggio della media (-21%). Le migliori performance, comunque negative, sono dell’Alto Adige (-13%) e del Trentino (-16%). Infatti, la più elevata natalità passata permette di far entrare nell’età lavorativa un maggior numero di persone a compensare l’uscita delle coorti più anziane, che comunque sono più grandi.

Teniamo presente che sia le stime sulla popolazione in età di lavoro sia sugli occupati sono sopravvalutate, perché portando meccanicamente avanti di 17 anni le coorti oggi più giovani si dà per scontato che nessuna persona verrà a mancare, mentre il tasso di mortalità non è nullo a nessuna età e sale con il passare degli anni di vita degli individui. Per costruzione, tuttavia, non è possibile indicare a quanto ammonti tale sovrastima. Qui è sufficiente sottolineare che il quadro effettivo sarà più brutto di come dipinto.

Invece, l’ipotesi di mantenere costante il tasso di occupazione ai livelli attuali discende è dettata dal desiderio di evidenziare cosa accadrà se non cambieranno i comportamenti, ma anche dalla carente disponibilità pubblica delle statistiche sul mercato del lavoro a livello regionale, suddivise per coorti di popolazione quinquennali.

L’allungamento della vita lavorativa attenua un po’ il calo

Questa ipotesi comporta una sottostima delle persone che saranno occupate. Infatti, già oggi c’è ampia differenza tra i tassi di occupazione dei 35-54enni e quelli dei 55-64enni. La differenza può essere ricondotta a fattori culturali e istituzionali. Sul piano culturale la divisione di ruoli tra i generi ha molto penalizzato (e per troppi versi continua a penalizzare fortemente) l’occupazione femminile; nelle generazioni più recenti tale divario di ruoli si è molto attenuato e ciò alza il tasso di occupazione. Sul piano istituzionale, il grado di sviluppo economico raggiunto spinge oggi a studiare di più e a iniziare a lavorare più tardi, maturando così i diritti previdenziali più avanti nell’età. Diritti che sono stati adeguati all’allungamento della vita.

Per la prima ragione e per la seconda, l’età di pensionamento effettiva è salita in Italia e i dati più recenti indicano in oltre 67 anni il ritiro per vecchiaia (67,3 anni), contro 61,4 anni nel 1997, e in 61,4 anni quella per anzianità lavorativa, contro 55,4 anni nel 1997. Sicuramente tale innalzamento proseguirà e quindi il tasso di occupazione nella corte 55-64 aumenterà automaticamente, ossia senza che debbano mutare norme e comportamenti.

Il maggior divario occupazionale aiuta più il Veneto, meno la Liguria

L’innalzamento meccanico del tasso di occupazione porterà a un maggior numero di lavoratori. Quanti? La scarsa disponibilità pubblica di statistiche indicata sopra impedisce di fornire una stima precisa. Però si può indicare una grandezza: quasi mezzo milione (+470mila). La distribuzione per regioni di questo maggior numero dipende dalla differenza che oggi esiste tra il tasso di occupazione nella fascia 35-54 anni e quello nella fascia 55-64. Tale divario è maggiore in Veneto (25,2 punti percentuali) e minore in Liguria (18,2, addirittura sotto la media nazionale). Quindi il Veneto beneficerà in misura proporzionalmente superiore dell’adeguamento del tasso di occupazione nella fascia 55-64 anni a quella nella fascia 35-54 anni.

Benché importante, l’attenuazione del numero di occupati dovuta al meccanico aumento del tasso di occupazione lascia immutata la gravità della caduta dell’occupazione che sarà causata dalla glaciazione demografica. Gravità che rende urgente attrarre persone da altri territori, come misura mitigativa. Tanto più i giovani, il cui numero si è ridotto e continuerà a ridursi nei prossimi anni.

Commenta