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Giustizia, la svolta garantista di Nordio è ambiziosa, molto difficile ma irrinunciabile

Imagoeconomica

Le dichiarazioni programmatiche rese dinanzi al Senato dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio sono esplosive; fanno tremare le vene ai polsi alla magistratura e all’ala politica più autoritaria. Ma sono musica all’orecchio di chi ritiene che il processo penale sia il luogo dell’accertamento e non la sede per comprimere le libertà dell’imputato. Il condannato deve scontare la pena secondo i canoni stabiliti dalla Costituzione; mentre l’imputato è una figura diversa e va trattata in modo da consentire il pieno esercizio dei suoi diritti, con la minima limitazione delle garanzie fondamentali della persona, da adottare solo se assolutamente necessaria.

La presunzione di innocenza e gli auspici di Nordio

È questo il quadro – conformemente alla presunzione d’innocenza riconosciuta dalle principali Carte sui diritti dell’uomo – nel quale si muovono le condivisibili idee del Guardasigilli. Ed ecco le sue prospettazioni principali.

In primo luogo, egli auspica che l’uso del carcere durante il processo si riduca al minimo necessario. Il rilievo nasce dall’anomalia, prevalentemente italiana, secondo cui un’elevata percentuale di detenuti è composta da persone in attesa di giudizio, anziché da soggetti che scontano la pena; la qual cosa è dovuta, in parte, ad un largo impiego della custodia cautelare e, per altra parte, alla presenza di misure alternative al carcere a favore di condannati a pene detentive brevi. Di qui la necessità di ponderare accuratamente le condizioni che permettono di comprimere la libertà durante il processo, affidandosi ad un organo giudiziario, diverso da quello attuale, in grado di assicurare maggiore equilibrio ed uniformità nell’esercizio del potere custodiale; la critica è rivolta al giudice per le indagini preliminari che, oggi, difficilmente si sottrae al fascino verso le ricostruzioni accusatorie del pubblico ministero. 

Il ricorso alle intercettazioni

In secondo luogo, il Ministro punta l’indice sul ricorso smodato alle intercettazioni, profilo che mette a repentaglio il diritto alla segretezza e alla libertà delle comunicazioni. In effetti, stando al dettato normativo, lo strumento dovrebbe essere impiegato solo quando non è più possibile adoperare altra attività d’indagine, dunque, come extrema ratio; ma si tratta di presupposto largamente ignorato dalla prassi. Si considerino, peraltro, gli effetti perversi derivanti dalla indebita diffusione dei colloqui intercettati, capaci non solo di influenzare la vita dell’imputato ma anche quella di soggetti del tutto estranei al processo, capitati casualmente nelle maglie delle captazioni; senza tralasciare che la mancata previsione di termini massimi nell’uso dello strumento permette di “tenere sotto controllo” la vita privata degli individui in assenza di limiti temporali, talvolta senza nemmeno produrre efficaci epiloghi sul piano indiziario.

L’esercizio dell’azione penale 

Ancora, il Guardasigilli censura l’arbitrio che sottende l’esercizio dell’azione penale la quale – secondo la Costituzione – non dev’essere rimessa alla scelta casuale del pubblico ministero, in ossequio all’eguaglianza di trattamento dei consociati dinanzi alla legge penale. In effetti, l’elevato numero di fattispecie penali contemplate dal legislatore non permette di perseguire tutte le notizie di reato; il che produce scelte di priorità, diverse da ufficio a ufficio, effettuate sulla base di criteri più disparati. La prospettiva, allora, è che dev’essere il legislatore, dopo attenta scrematura, a selezionare le condotte che meritano ancora di essere punite penalmente e da quelle tramutabili in illeciti di tipo amministrativo, in modo da ridurre drasticamente le notizie di reato in entrata presso le procure della Repubblica.

Separazione dei ruoli tra magistratura giudicante e requirente

Infine il ministro Nordio ha il coraggio di toccare un aspetto decisivo dell’intera organizzazione giudiziaria, invocando la netta separazione di ruoli tra magistratura giudicante e requirente. Il punto è altamente nevralgico. 

Per un verso, una scelta del genere ha sempre trovato la ferrea opposizione della magistratura associata la quale sostiene che la separazione tra giudice e pubblico ministero rischia di incidere sull’indipendenza dell’ordine giudiziario sancita in Costituzione; ma si tratta di argomento dal sapore strumentale e giuridicamente debole: niente vieta di costruire un sistema nel quale entrambe le figure, pur distanziandosi, restino immuni dall’influenza di altri poteri dello Stato.

Per altro verso, l’unicità genetica tra magistratura requirente e giudicante, non essendo sufficiente a determinare la separazione effettiva dei ruoli processuali, incrina la neutralità delle decisioni che sono inevitabilmente influenzate dalla “vicinanza di toga” tra pubblico ministero e giudice e dalla comune distanza dalla figura del difensore; la qual cosa influisce sulla parità tra accusa e difesa quale cardine del giusto processo stabilito  in Costituzione. Del resto, nei Paesi di common law, dove il metodo accusatorio è sperimentato da lunghissimo tempo, le figure del giudice e quella dell’accusatore provengono da ruoli istituzionali del tutto distinti, proprio allo scopo di garantire la parità delle armi tra le parti e l’imparzialità delle pronunce giudiziarie.

In definitiva, s’intuisce che il ministro Nordio ha messo in campo prospettive tanto auspicabili quanto ambiziose: sarebbe ingenuo ignorare quanto sia accidentata la strada che egli intende percorrere, a cominciare dagli ostacoli che potrebbe frapporre la parte meno permissiva della stessa maggioranza di Governo. 

°°°°L’autore è Professore Ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Roma Tor Vergata e Presidente dell’Associazione studiosi del processo penale

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  • ...però da come parlava il ministro i pm sono un'associazione di delinquenti. Nelle sue parole c'era odore di vendetta che non mi è piaciuto e che non promette bene.