Per fronteggiare l’emergenza Covid-19, il Governo ha previsto, fino al 31 luglio 2020, la possibilità di celebrare i processi penali da remoto, tramite piattaforme digitali che garantiscano l’effettivo contraddittorio tra le parti. In sede di conversione del decreto-legge si è escluso che possa procedersi da remoto per svolgere la istruttoria dibattimentale, salvo consenso delle parti. L’iniziativa del Governo è indice di una mentalità.
Abituati a vivere ossessivamente immersi nei social, è difficile far comprendere quanto questa vicenda sia insidiosa: da più parti se ne prospetta l’applicazione tout court dopo la fine della pandemia, incidendo definitivamente sull’esercizio di diritti (costituzionali) nello svolgimento della giurisdizione.
Lo scudo sollevato dagli avvocati (ma non solo) non va inteso quale sintomo di aprioristica avversione alla modernità, bensì come il doveroso allarme per scongiurare il rischio che il trasloco sul digitale produca le criticità dovute alla spersonalizzazione dell’udienza. Altra cristallizzazione delle distorsioni della macchina giudiziaria, le quali sempre più frequentemente si abbattono come accidenti sul processo, relegandolo nel limbo dell’inconcludenza. Così accade per i processi con imputati a piede libero ormai definitivamente consegnati alla prescrizione o, in seguito all’entrata in vigore della riforma di quest’ultima, proiettati in un futuro indefinito.
Se è ormai chiaro a tutti che la scuola da remoto priva i bambini della necessaria e ineludibile formazione relazionale propria dell’ambiente scolastico, non c’è bisogno di dilungarsi per spiegare che la celebrazione del processo pretende una co-oralità delle parti in contraddittorio non replicabile da remoto se non in casi eccezionali, codificati.
Detto in altri termini, il processo penale – in cui sfilano testimoni, consulenti, poliziotti, vittime e imputati innanzi al giudice in pubblica udienza – maturato lungo secoli di elaborazione dottrinaria e di scienza della legislazione, non è replicabile da remoto. I protagonisti del processo non possono essere trasformati in identità metalliche, anodine, perché perderebbero l’attitudine a farne parte, cioè quella capacità di incidere sulla percezione qualificata del giudice, che lo orienta nella formazione del convincimento.
Si paventa di trasformare l’emergenziale in regola, presentando l’equazione, in apparenza suggestiva di processo digitale uguale efficienza del processo, che in realtà non è altro che un nuovo ossimoro della giustizia. Immaginare che celebrare i processi da remoto risolva le disfunzioni della giustizia appare davvero semplicistico.
Ove davvero si intenda estendere il regime emergenziale al post-Covid ci troveremmo di fronte all’ennesima riforma non cogitata, estemporanea, come quella che ha disposto il blocco della prescrizione con l’emissione della sentenza di primo grado. Riforme che si basano sul singolare assunto che cancellare i problemi (in quel caso la lunghezza dei processi) equivale a risolverli. Insomma, il processo così manipolato secondo contingenza politica non procede.
Un sano impiego dell’informatica può certamente migliorare il processo, ma non risolve i problemi di fondo. Vediamo.
Occorre capovolgere la prospettiva dell’iniziale intervento legislativo (digitale = efficienza) e chiedersi cosa possa fare il digitale per sostenere al meglio l’esercizio della giurisdizione.
Distinguerei i momenti dell’amministrazione della giustizia dalla giurisdizione. Oggi la seconda è appesantita, se non ostacolata, dalla prima. La tecnologia deve intervenire per migliorare la macchina che ruota intorno al processo, per affrancarsi dai legacci burocratici e procedere con ragionevole speditezza.
Ad esempio: immaginare una piattaforma digitale che metta in rete la Procura Distrettuale con tutti gli Uffici G.I.P. del distretto così distribuendo, tra giudici con il medesimo grado di professionalità, l’adozione dei provvedimenti che non richiedono l’intervento della difesa (archiviazioni contro ignoti, autorizzazioni, intercettazioni) e sollevando il carico degli Uffici G.I.P. dei capoluoghi; consentire agli avvocati penalisti un’interlocuzione paritaria con i Tribunali, come nel civile da tempo, a mezzo pec.
Peraltro, il nucleo centrale delle disfunzioni che incidono sul processo è nel momento della giurisdizione. È soprattutto legato all’incessante mutamento della persona del giudice per una serie di motivi tutti formalmente ineccepibili. Ma è evenienza che, come noto, impone, e non potrebbe essere altrimenti (!), che il processo inizi daccapo, salvo consenso delle parti.
Anche qui il digitale può essere di ausilio per scongiurare la sostituzione del magistrato giudicante, che specialmente nei processi complessi, produce grave nocumento del patrimonio cognitivo della istruttoria dibattimentale, cioè di quell’insieme di informazioni di carattere percettivo/intuitivo (per esempio: credibilità di un testimone) che costituiscono elemento fondamentale e insostituibile nel percorso di formazione del convincimento del giudice. Peculiarità che svanirebbe con il trasloco sul digitale proprio perché basato su percezioni in prima persona, dirette, fisiche.
Il magistrato viene trasferito per avanzamenti di carriera che piombano improvvisamente sul processo, per trasferimento in sedi disagiate o al loro abbandono secondo esigenze di carriera, per uscita fuori ruolo, in seguito a conferimento di incarichi di consulente di commissioni parlamentari, alla nomina a commissario del concorso di magistratura, alla assegnazione alla scuola di formazione. Tutte evenienze che, come oggi disciplinate o attuate, producono una grave défaillance del processo, direi della giurisdizione, quindi, anche nel civile.
E allora, predisporre una piattaforma digitale incentrata sul principio della prevalenza della celebrazione dei processi in corso, che coniughi, almeno in ambito Distrettuale, l’avvicendamento dei magistrati con lo stato di avanzamento dei processi.
Ancora: le lezioni della scuola di magistratura possono essere fatte online così consentendo al magistrato di rimanere in sede e non trasferirsi presso la scuola; le consulenze alle commissioni parlamentari possono collegarsi online; la correzione dei compiti scritti del concorso di magistratura, e così via.
Quindi il digitale, piuttosto che attentare alla sacralità costituzionale del processo (del giudizio), viene ad essere strumento utilizzato dal magistrato per svolgere da remoto quegli altri ruoli non incompatibili con la conduzione o partecipazione ai processi in corso, ferma la ineludibile preminenza alla celebrazione dei processi; ovvero che la giustizia, nel suo complesso, funzioni.
Ecco, questo è il digitale che serve, in senso propriamente letterale, la giurisdizione; quello che rafforza la celebrazione del processo nei tribunali, mantenendolo immune dalle criticità burocratiche che oggi lo incatenano. Invece per assicurare la continuità della funzione giudicante nella persona stessa del giudice che ne è investito, si richiedono interventi ben più complicati dell’impiego del digitale.