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Giulio Napolitano: “Uscire dalla crisi” ma con meno o più Stato?

UN NUOVO LIBRO DI GIULIO NAPOLITANO – Per gentile concessione dell’autore e dell’editore pubblichiamo parte delle conclusioni del saggio del giurista (“Uscire dalla crisi”) edito da “Il Mulino” e in libreria da Ferragosto – All’inizio della crisi il ruolo dello Stato è cresciuto ma oggi non è più così e alla fine “c’è più e meno Stato allo stesso tempo”

Giulio Napolitano: “Uscire dalla crisi” ma con meno o più Stato?

ESPANSIONE O RIDUZIONE DELLO STATO?

I POTERI PUBBLICI DI FRONTE ALLA CRISI

Le politiche pubbliche adottate per uscire dalla crisi sono state molteplici. Il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e il conseguente panico sui mercati finanziari di tutto il mondo hanno costretto gli Stati a intervenire precipitosamente per soccorrere banche e intermediari, offrire aiuti al sistema economico e garantire la protezione dei più deboli. Ma, dopo appena due anni, sono emerse l’insostenibilità del debito sovrano e l’incapacità di un numero crescente di governi di affrontare i conseguenti problemi di liquidità e di solvibilità. Gli Stati hanno quindi dovuto pensare a salvare se stessi, adottando severe misure di risanamento finanziario e di contenimento della spesa pubblica. La direzione di marcia, però, non è univoca, perché la crisi dello Stato si è manifestata immediatamente dopo un palese insuccesso del mercato

I pubblici poteri hanno dovuto inventare meccanismi di soccorso in favore del sistema finanziario, proprio quando, per effetto di privatizzazioni e liberalizzazioni, avevano raggiunto il massimo livello di arretramento dall’economia. Subito dopo, però, l’aggravamento delle condizioni di squilibrio strutturale delle finanze statali,per effetto sia della crisi economica sia degli interventi pubblici adottati per porvi rimedio, ha determinato un nuovo movimento di segno inverso. Si conferma così, ancora una volta, che le grandi crisi sottopongono a una notevole tensione il sistema dei pubblici poteri, determinando ora semplici fenomeni adattivi, ora complessi meccanismi di reazione, ora organici disegni di riforma. I cambiamenti istituzionali oggi in atto investono sia le frontiere esterne dello Stato sia le sue dinamiche interne, modificando i «termini» del patto costituzionale e gli istituti del diritto amministrativo.

In ambito sovranazionale, si affermano nuove forme di cooperazione e mutano gli equilibri tra Unione europea e Stati membri. In sede nazionale, sono ridefiniti i rapporti tra governi e parlamenti e quelli tra organi elettivi e apparati tecnici. I confini tra settore pubblico e settore privato registrano continui avanzamenti e arretramenti. Tutto ciò spiega perché sia sempre più difficile tracciare il perimetro della sfera pubblica e profetizzare l’espansione o, all’opposto, la riduzione dello Stato. La crisi odierna è, per magnitudine e gravità, paragonabile a quella del 1929. Ma gli assestamenti e le trasformazioni istituzionali che ne derivano appaiono, almeno per ora, di segno più ambiguo rispetto a quelle che allora connotarono l’avvio del New Deal e l’affermazione del Welfare State.

La crisi ha mutato anche gli equilibri istituzionali all’interno degli Stati, nei rapporti tra governi e parlamenti e in quelli tra organi elettivi e autorità indipendenti. Si tratta di problematiche in larga parte inedite. 

Un’altra grande trasformazione determinata dalla crisi riguarda i rapporti tra pubblico e privato. Negli anni Trenta dello scorso secolo, l’uscita dalla Grande depressione determinò una generale espansione della sfera pubblica. I mercati finanziari furono sottoposti a una regolamentazione più severa,basata sulla separazione tra banche e industrie e sulla istituzione di apposite autorità di vigilanza. Pianificazioni e regolazioni pubbliche si estesero a tutti i campi della vita economica e sociale. Fiorirono le imprese pubbliche, sia nel campo dell’industria, sia nell’ambito dei servizi. Anche all’inizio della crisi del 2008 il ruolo dello Statosi è esteso a causa della necessità di salvare banche, intermediarie imprese strategiche dal rischio del fallimento. In molti casi i governi sono entrati nel capitale di operatori di mercato, dalle istituzioni finanziarie alle case automobilistiche.

In alcuni paesi, come il Regno Unito, il regime di proprietà pubblica così introdotto è stato definito «temporaneo». Ma termini e procedure per l’uscita dello Stato non sono stati fissati. I governi, dunque, sono ancora presenti in molte aree strategiche dell’economia. In alcuni ordinamenti cresce così il conflitto tra il diritto amministrativo che regola il comportamento dell’azionista pubblico e il diritto comune che disciplina le società commerciali. Non è tuttavia mutato il paradigma concettuale dominante negli ultimi trent’anni, secondo cui l’intervento pubblico diretto nell’economia deve considerarsi eccezionale e, comunque, residuale rispetto all’iniziativa privata.

Soltanto nelle nuove potenze mondiali e nei paesi emergenti, si è affermata l’idea che il capitalismo di Stato costituisca un elemento di stabilizzazione e di propulsione dell’intero sistema economico. Anche la frontiera della regolamentazione pubblica è avanzata. Banche e intermediari finanziari sono stati sottoposti a una disciplina più severa, invertendo il processo di deregulation avviato sul finire del XX secolo. Si tratta soprattutto di vincoli imposti in sede sovranazionale, per effetto della revisione degli accordi di Basilea e delle decisioni delle autorità europee di vigilanza.

Contemporaneamente,a livello nazionale, è stata forte la pressione per ridurre i margini di rendita di operatori e manager e per garantire un maggior flusso di credito in favore delle imprese. Secondo alcuni, tuttavia, le misure adottate hanno avuto una portata modesta: in particolare, non si è reintrodotta una netta separazione tra banche commerciali e attività speculative, come invece fu fatto in risposta alla crisi del 1929. L’esigenza di sostenere la ripresa ha poi spinto molti governi a tornare a politiche di programmazione e di spesa per investimenti. Sono così tornate in auge alcune ricette di stampo keynesiano. La limitatezza delle risorse pubbliche disponibili, tuttavia, ha imposto di agire in modo selettivo e di puntare soprattutto sull’alleggerimento degli oneri burocratici.

Anche alcune protezioni sociali, come quelle contro la disoccupazione, sono state rafforzate. Ma la capacità di innovazione nel ridisegnare i sistemi di welfare è stata ridotta. Nella maggior parte dei casi, infatti, si sono introdotti meri adeguamenti al quadro normativo vigente, attraverso l’estensione, talvolta soltanto temporanea, dell’area dei benefici o il rifinanziamento di alcuni strumenti di intervento. L’improvviso e inaspettato rilancio del ruolo dello Stato, determinato dalla crisi finanziaria ed economica, ha dunque prodotto risultati contenuti: per la carenza di risorse finanziarie e per la difficoltà a esercitare efficacemente poteri regolamentari in un contesto caratterizzato dalla concorrenza tra ordinamenti giuridici.

A tutto ciò si sono però aggiunte mancanze sia di leadership politica, sia di teoria economica, a differenza di quanto avvenne negli anni Trenta del XX secolo, con la presidenza di Roosevelt negli Stati Uniti e l’influenza del pensiero di Keynes. Quella del ritorno dello Stato, in ogni caso, è stata una stagione breve. L’attacco al debito sovrano, infatti, ha subito dopo imposto un movimento inverso, che potrebbe condurre a un drastico ridimensionamento delle funzioni dei pubblici poteri. La disciplina di mercato, infatti, non ha risparmiato gli Stati, sottoposti all’impietoso giudizio delle agenzie di rating e all’andamento, talora schizofrenico, di titoli e borse. La riduzione dell’intervento pubblico in alcuni paesi è stata resa necessaria dalle condizioni imposte nell’ambito dei programmi di assistenza finanziaria.

Gli accordi raggiunti con le istituzioni europee e il Fondo monetario internazionale hanno obbligato gli Stati beneficiari dei prestiti ad attuare un programma di privatizzazioni e di liberalizzazioni. Analoghe strategie sono state adottate in altri Stati membri per recuperare credibilità sui mercati internazionali e per aderire ai più stringenti requisiti di sostenibilità fiscale fissati a livello europeo. Ciò ha comportato anche la riapertura del «cantiere» delle riforme amministrative: anche se nel segno della riduzione degli apparati e dei costi del personale, piuttosto che in quello dell’innovazione e del miglioramento della qualità burocratica.

La ricerca di nuove strade per favorire la crescita e lo sviluppo ha spinto molti governi ad aprire i settori dell’economia nazionale maggiormente prigionieri di logiche corporative, a ridurre gli oneri burocratici gravanti sule imprese e ad adottare riforme strutturali del mercato del lavoro e dei sistemi di welfare, con un allentamento delle protezioni e delle garanzie pubbliche. Una delle conseguenze di tali trasformazioni è lo spostamento dal pubblico al privato della responsabilità di fornire servizi di interesse generale. In questa prospettiva, tuttavia, rimangono aperte molte questioni. Innanzitutto, occorre capire fino a che punto gli Stati possano delegare funzioni e servizi pubblici ad attori privati.

Bisognerà poi verificare se la gestione privata riuscirà a essere efficiente ed equa allo stesso tempo, riuscendo a soddisfare le domande dei cittadini senza operare discriminazioni. Infine, si tratta di comprendere se il coinvolgimento dei privati e delle comunità in attività di utilità collettiva costituisca comunque una funzione pubblica e come le istituzioni centrali e locali possano assolverla.

Se l’immagine del pendolo oscillante ben si attaglia agli andamenti di molte politiche pubbliche adottate per uscire dalla crisi, più difficile, anche per la vicinanza con gli eventi, è valutare le trasformazioni istituzionali in atto e prevederne gli effetti nel medio e nel lungo periodo. Le risposte alla crisi del 1929 furono probabilmente tardive. E certo rimasero chiuse nell’ambito decisionale di ciascuna comunità nazionale, mancando meccanismi effettivi di cooperazione internazionale. Eppure, nonostante la diversità di regimi politici, i risultati furono simili in tutto il mondo occidentale. I pubblici poteri, con i loro apparati burocratici, rafforzarono la presa sull’economia e sulla società.

Gli Stati nazionali ne uscirono più forti. E talora desiderosi di esibire la loro rinnovata potenza fino al tragico scoppio della seconda guerra mondiale. Le istituzioni amministrative create al fine di gestire l’emergenza economica si consolidarono e sopravvissero anche al conflitto bellico, sviluppandosi ulteriormente nel dopoguerra. Non pare probabile che il percorso di uscita dalla presente crisi conduca nella stessa direzione di un’espansione della sfera pubblica. All’indomani del default di Lehman Brotherssi è scaricata sugli Stati, sui governi e sui loro leader una pressante richiesta di risposte e di soluzioni. È questa la conseguenza anche di un contesto politico completamente diverso rispetto a quello degli anni Trenta del XX secolo.

I sistemi democratici oggi incentivano la domanda di beni e servizi da parte dei cittadini. E questa aumenta quanto più si tratta di porre rimedio alle crescenti difficoltà economiche e sociali. I mezzi di comunicazione di massa, a loro volta, amplificano il senso di quella domanda e l’attesa di un’efficace risposta, anche se la crisi, pur avendo colpito milioni di persone in tutto il mondo, non ha ancora prodotto radicali cambiamenti della vita collettiva o generato movimenti popolari tali da sconvolgere gli equilibri politici oggi esistenti.

D’altra parte, l’esempio negativo del 1929, con la colpevole inerzia dei governi che facilitò la propagazione del contagio e il subitaneo aggravarsi della crisi in una grande depressione, ha contribuito a spingere i pubblici poteri ad agire rapidamente per evitare il ripetersi di quell’errore e prevenire un’analoga spirale distruttiva. Le politiche pubbliche messe in campo per uscire dalla crisi e documentate in questo volume soltanto in parte sono riuscite a centrare l’obiettivo. La tenuta e il rafforzamento di alcune protezioni sociali, insieme alle riserve di ricchezza collettiva, hanno impedito che le condizioni di vita delle popolazioni peggiorassero radicalmente. Ciò, probabilmente, ha contribuito a evitare anche l’esplosione di gravi proteste sociali, finora rimaste circoscritte a livello locale.

Ma, di fronte all’emergenza e ai suoi improvvisi aggravamenti, i governi si sono accorti di non avere più a disposizione tutte le leve di intervento necessarie. Le risorse pubbliche per sostenere la crescita e dare risposte ai nuovi bisogni scarseggiano. La sovranità statale è indebolita, mentre gli strumenti di cooperazione sovranazionale finora sperimentati si rivelano inadeguati, anche per la miopia di alcuni calcoli nazionali. I mercati finanziari mettono a nudo le fragilità dei governi. La minacciosità dei primi compensa il deficit di legittimazione dei secondi nel far passare riforme impopolari, quando queste sono percepite come oggetto di un ordine esterno più che di un autonomo disegno di riforma rispondente all’interesse nazionale.

Dal punto di vista istituzionale, alcuni fondamenti tradizionali dell’autorità statale sembrano ulteriormente erosi. Ma anche le facili predizioni sul tramonto della sfera pubblica in nome della superiore efficienza del mercato risultano smentite dall’improvvisa deflagrazione della crisi e dalla magnitudine dei suoi effetti negativi. Nuovi concetti e approcci allo studio dei fenomeni giuridico-istituzionali devono essere affinati per meglio comprendere lo sviluppo di «pratiche concertate» nell’ambito della cooperazione internazionale, la costruzione di una sovranità condivisa a livello europeo e la trasformazione dell’Unione in una comunità di rischi e non più solo di benefici.

Le prospettive del diritto costituzionale devono aprirsi al mutare dei rapporti tra governi e parlamenti, tra organi elettivi e autorità tecniche, tra poteri centrali ed enti locali. La costruzione di un’adeguata funzione «abilitatrice» dello Stato diventa fondamentale nel momento in cui la responsabilità di fornire beni e servizi pubblici è sempre più nelle mani dei privati. I passaggi di sovranità e di potere causati dalla crisi finanziaria e poi da quella del debito sovrano, in ogni caso, non possono descriversi come un gioco a somma zero.

Le perdite e i guadagni dei diversi attori non si annullano le une con gli altri. C’è più e meno Stato allo stesso tempo. L’impressione è che ciò che si sta verificando sia un notevole arricchimento delle mosse a disposizione dei differenti giocatori e un’enorme complicazione delle regole del gioco. Questo significa che il lavoro dei governanti diventa sempre più difficile; e che c’è ancora molto da studiare per gli scienziati del diritto pubblico.


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