Ammetto che ho assistito all’avvio del nuovo Giro d’Italia, il numero 105, con diverse perplessità. La partenza estemporanea in Ungheria. L’assenza di grandi campioni quali Pogacar, Roglic, Bernal. La restrizione del campo dei favoriti alla vittoria finale al solo Carapaz, il quale, per quanto sia il campione olimpico in carica, ha avuto il merito di avere vinto il giro del 2019 grazie a una fuga bidone, sottovalutata dai più dotati Nibali e Roglic (non è la prima volta nella storia del giro: basta ricordare la vittoria nel 1954 dello svizzero Clerici, uno sconosciuto che beffò Coppi e Magni). Aggiungo la scarsità di italiani candidabili a una vittoria, anche solo di tappa. Perché il ricambio generazionale dei corridori italiani si rivela più problematico che altrove.
Ancora una volta siamo costretti a sperare nelle residue risorse di Nibali a 37 anni, l’ultimo italiano ad avere vinto il Giro nel 2016. Come del resto gli spagnoli ancora si affidano a Valverde, 42 anni, all’ultima stagione, che in carriera ha vinto un solo lungo giro, la Vuelta di Spagna nel 2009. Non sono in vista campioni spagnoli come sono stati Contador e Indurain. Anche i francesi non sono all’altezza dei grandi del passato: Bobet, Anquetil, Hinault, che fecero razzia di grandi giri. Non è un caso che non vincono il Tour de France dal 1985, l’ultimo dei 5 vinti da Hinault. Le uniche speranze sono affidate a Bardet, che si è appena distinto per avere vinto il mese scorso il Tour des Alps.
Giro d’Italia 2022: le prime tre tappe in Ungheria
Debbo però ammettere che già dalle prime tre tappe mi sono dovuto ricredere. La magia del Giro ha avuto il suo effetto benefico. A cominciare dal successo delle tappe ungheresi. Grande successo di pubblico, appassionato, festoso, disciplinato. Immagini televisive spettacolari dei monumenti di Budapest, del mitico Danubio, del lago Balaton. Mi ha anche colpito la qualità delle piste ciclabili: una vera stradina asfaltata parallela al percorso stradale, sicura e percorsa da ciclisti amatori che si sono divertiti a competere per buoni tratti con i corridori. Non so quanto sia stato il costo della presenza del Giro sostenuto dalle autorità ungheresi, ma certo si è rivelato un buon investimento se non altro a livello di richiamo turistico. Perché questo sono i grandi giri che per tre settimane attraversano i territori prescelti. Richiedono un sostanzioso impegno finanziario da parte delle istituzioni locali, che si ripaga con le immagini televisive trasmesse dagli elicotteri. Uno spettacolo nello spettacolo del ciclismo moderno.
Poi ci sono i risultati delle tappe. Che sono andati al di là delle più rosee aspettative. In primo luogo, la qualità dei vincitori, nell’ordine l’olandese Van der Poel, gli inglesi Yates e Cavendish. Tutti e tre alimentano riflessioni e stimoli di interesse agonistico.
Van der Poel erede del ciclismo del passato
Non è come una volta quando le prime erano solo noiose tappe di avvicinamento, con vincitori di turno destinati a essere presto dimenticati. Mathieu Van der Poel è uno dei grandi interpreti del ciclismo attuale. Un talento come ne nascono pochi. Con in più la romantica storia personale di essere l’erede del ciclismo del passato: figlio di Adri, vincitore del Giro delle Fiandre nel 1986 e della Liegi nel 1988, e nipote del mitico Poulidor, noto per non avere mai vinto un Tour (3 volte secondo, 4 terzo) né avere mai indossato la maglia gialla. Il nipote Mathieu ha già indossato la maglia gialla lo scorso anno, dedicandola al nonno. Ed è già maglia rosa, da debuttante. Gli esperti si chiedono se potrà mai vincere un grande giro, per riscattare completamente l’immagine perdente dello sfortunato Poulidor. Allo stato attuale è un levriero da corse di un giorno.
Per vincere un grande giro dovrebbe programmare la preparazione per resistere tre lunghe settimane di sforzi continui. Lavorare più sulla resistenza e sulla capacità di centellinare gli sforzi. Chiederlo a un purosangue potrebbe voler dire snaturarlo, questo è ciò che si teme. Va detto che le stesse perplessità si ebbero nei confronti del primo periodo di Merckx, accolto come uno dei tanti velocisti, cacciatore di tappe facili, che poi sorprese tutti vincendo sul Blockhous e sulle Tre Cime di Lavaredo nel 1968, il primo dei 5 giri vinti. Eddy vinse di tutto, ma durò poco: smise a poco più di 30 anni.
L’inglese Cavendish brucia Demare e Gaviria
Quindi già dalla prima tappa, l’avvio del Giro ha acceso l’interesse degli appassionati con temi di fondo che riguardano le caratteristiche dei corridori legate al tracciato da percorrere. Che nella terza tappa pianeggiante, intorno al lago Balaton, abbia vinto Cavendish non ha sorpreso, trattandosi di uno dei migliori velocisti della storia del ciclismo. Campione del mondo nel 2011 e vincitore della Milano Sanremo nel 2009, semmai sorprende il suo ritorno alla vittoria a 37 anni, dopo un lungo periodo buio. Debbo dire che non amo le tappe pianeggianti, che sono inserite in un grande tour per due motivi: attrarre i velocisti, che non avrebbero altre chance di vittoria nelle tappe di montagna, e consentire una sgambata di scioglimento dei muscoli a tutti i corridori, in attesa delle tappe più dure.
Neppure amo i velocisti, anche se posso ammirarli. Sono dei naturali succhiaruote, nel senso che hanno bisogno di essere tenuti al coperto per preservare il loro scatto esplosivo per gli ultimi 200 metri. Se è così non si capisce perché dovrebbero essere trascinati a ruota dei compagni per oltre 200 km in attesa del rettilineo di arrivo. Sarebbe come se in atletica i centometristi venissero fatti correre nella maratona! Li vedrei meglio cimentarsi nella pista di un palasport, come nelle avvincenti gare di velocità dei tempi di Maspes e Gaiardoni. Non ha neppure senso le lunghe e noiose riprese televisive di queste tappe, dove nulla avviene per oltre 200 km. Ciò detto, tanto di cappello per il coraggio di rischiare una caduta davanti a un gruppo di cento corridori a più di 50 all’ora e l’astuzia di sapere attendere un momentaneo varco nel quale prontamente infilarsi in vista del traguardo.
Giro d’Italia 2022: Yates possibile vincitore
Infine, alcune considerazioni su Simon Yates, l’unico vincitore di tappa non pronosticato. A vederlo non ha le caratteristiche di un cronoman, eppure ha vinto la tappa a cronometro sia pure di soli 28 km, davanti al pronosticato Dumoulin, medaglia d’argento olimpica a cronometro e vincitore del Giro 2017. Simon è un fuscello leggero con le caratteristiche dello scalatore. L’ho visto vincere nella tappa di Osimo del Giro 2018, scattando a velocità di motocicletta nell’ultimo km in salita sul pavé. Mantenne la maglia rosa per 13 tappe per poi cederla a Froome, un plurivincitore grande attendista, il cui gesto atletico da “frullatore” non mi ha mai entusiasmato. Yates ha struttura fisica e classe che mi ricorda Contador, che sapeva vincere anche a cronometro.
Credo che meriti di essere pronosticato come possibile vincitore di questo Giro, purché sappia gestirsi alla distanza, cosa che in passato non è mai riuscito a fare. Un Giro definito molto duro, con 5 arrivi in salita e circa 51 mila metri di dislivelli complessivi da superare.
Noto, con dissenso, la rincorsa a cercare difficoltà, trovare strade d’altri tempi, inserire i cosiddetti muri con pendenze sempre più ardue. Una concorrenza tra organizzatori di grandi giri che alla fine è solo di facciata. I corridori moderni, costretti a questi tour de force, rispondono graduando gli sforzi, con tattiche di controllo reciproco, per poi riservarsi di attaccare negli ultimi due o tre km di un tappone, nel quale hanno superato anche cinque valichi, per erodere all’avversario poche decine di secondi. In fondo sono esseri umani e non eroi da spettacolo televisivo come richiederebbe il business commerciale dominante.
°°°°L’autore è Professore emerito di Politica economica al Politecnico delle Marche