La rassegna presenta ventidue ritratti e autoritratti (16 dipinti e 6 disegni), provenienti da collezioni pubbliche e private internazionali, realizzati lungo tutta la carriera di Segantini, dagli esordi a Milano (1879) fino alla morte prematura in Alta Engadina (1899). Questi lavori permettono ai visitatori di seguire l’evoluzione della ritrattistica segantiniana da specchio a simbolo, cioè la graduale trasformazione del modo in cui l’artista ha inteso questo genere: partendo dalle opere giovanili, in cui persegue una resa più o meno fedele dei tratti fisionomici, giunge alla concezione del ritratto come veicolo per esprimere un’idea o un simbolo.
Il percorso espositivo si apre con alcune importanti opere del periodo giovanile milanese, come l’affascinante ritratto di Leopoldina Grubicy (1880), sorella di Vittore Grubicy de Dragon, mercante d’arte e amico dell’artista. All’epoca della posa la giovane donna era appena rimasta vedova con due bambini. Segantini ha saputo rendere con grande forza espressiva il volto di aristocratica eleganza del suo modello, in cui gli occhi, che concentrano l’attenzione, esprimono infinita tristezza.
Alle opere milanesi segue una scelta di lavori realizzati durante il soggiorno in Brianza (1881-1886), tra cui il toccante disegno del piccolo Gottardo (1885), il primogenito dell’artista, addormentato dopo aver subito un’operazione.
Al 1886 risale l’effige della contadina Maria Paredi che, grazie alla pennellata violenta, spessa e filamentosa, si potrebbe definire quasi espressionista. Subito dopo il trasferimento a Savognin, nel Cantone dei Grigioni, Segantini realizzò uno degli esempi più belli del suo talento come “esploratore del volto umano”. Si tratta del ritratto monumentale di Vittore Grubicy (1887), nel quale raffigura l’amico su un primo piano fortemente costruito, circondato da alcune tele appena coperte, nell’intento di definirne il lavoro di mercante d’arte. Il volto di Grubicy, raccontato in modo intimista, rilassato, colto durante una discussione con il pittore, rivela una personalità riservata e generosa.
Di appena tre anni più tarda è l’elegia simbolista Petalo di rosa (1890), l’ultima rappresentazione della compagna Bice Bugatti, un capolavoro della ritrattistica segantiniana, ridipinto sopra un’opera dal titolo Tisi galoppante (1881). Il pittore decise qui di cancellare il precedente, lugubre messaggio di malattia e morte, sostituendolo con un simbolo di vita, reso magistralmente anche grazie all’utilizzo di una sperimentazione tecnica, che affondava le proprie radici nel Rinascimento: essa prevede l’utilizzo della polvere e della foglia d’oro, per giungere a una valenza iconica, che coesiste con effetti morbidi di forte sensualità.
È attraverso gli autoritratti che si manifesta in modo ancora più inequivocabile la metamorfosi da specchio a simbolo; la rosa dei sei lavori esposti, i più noti della sua produzione, spazia dal 1879 al 1898, dal primo autoritratto, un’opera realista che rispecchia il fascino dei lineamenti del giovane artista ventenne, fino all’ultimo, che presenta un volto da profeta.
Di particolare effetto è quello del 1882, potentemente imperniato sul rapporto effigie/morte, immagine macabra in cui l’artista si dipinge con forte teatralità, allucinato, spada alla gola, pronto al sacrificio di chi si immola all’ideale di un nuovo culto. Anche la tavolozza si adegua a questo messaggio, con toni cupi, in contrasto con la luminosità accesa di altri ritratti coevi.
Un ulteriore capolavoro è l’autoritratto del 1895, in cui il simbolismo trascende la resa mimetica della fisionomia verso sembianze bizantineggianti da Cristo Pantocratore, dominante sulla catena dei “suoi” monti. Grazie al grafismo monocromo, rotto solo da tocchi d’oro e gesso bianco, l’immagine si fa icona, mentre la fisicità del colore ne avrebbe intaccato il senso di sacralità.
Segantini nacque il 15 gennaio 1858 ad Arco, in provincia di Trento, che allora faceva parte dell’Impero austro-ungarico. Frequentò l’Accademia di Brera a Milano e ottenne il suo primo successo con il dipinto “Il coro della chiesa di Sant’Antonio in Milano” (1879).
Nel 1881 Segantini lasciò Milano e si trasferì con la compagna Bice Bugatti in Brianza. L’allontanamento dalla città e dall’accademia con i suoi canoni e i soggetti mitologici e religiosi obbligati fu una scelta di principio. A quel tempo la Brianza era una regione rurale, Segantini concentrò il suo studio sulla vita quotidiana dei contadini e dei pastori. Nel 1882 nacque il primo figlio, Gottardo; seguirono Alberto, Mario e Bianca.
Nell’agosto 1886 il pittore, dopo un lungo viaggio esplorativo, si stabilì con la famiglia a Savognin, un villaggio di contadini di montagna nell’Oberhalbstein (cantone dei Grigioni). Nell’inverno del 1886/87 il suo mercante d’arte, Vittore Grubicy, gli fece visita e informò il suo protetto sulle tendenze artistiche più moderne in Francia. Fu però soprattutto il paesaggio montano con la sua luce intensa che portò Segantini ad un nuovo linguaggio pittorico. Con il passare del tempo questi arricchì di un contenuto simbolico i paesaggi alpini meticolosamente osservati, in modo da creare visioni allegoriche di rara luminosità. L’allontanamento dalla pittura realista di genere avvenne in una fase di crisi del realismo in tutta Europa.
Dopo otto anni di soggiorno a Savognin, Giovanni Segantini si trasferì in Engadina con la sua famiglia. Nel 1894 prese in affitto lo Chalet Kuoni a Maloja. Anche qui l’artista, i cui dipinti erano tra i più costosi dell’epoca, mantenne il lussuoso stile di vita dell’alta borghesia milanese, sperperando così in breve tempo i guadagni considerevoli. I mesi invernali li trascorreva a Soglio in Val Bregaglia.
All’età di 41 anni, Segantini morì inaspettatamente di peritonite il 28 settembre 1899 sul monte Schafberg sopra Pontresina, mentre stava lavorando al quadro centrale del suo Trittico della natura.