Il 60% delle donne che si rivolgono ai Centri Antiviolenza (Cav) non ha un lavoro né una casa, in altre parole, nessuna forma di indipendenza economica; questa percentuale sale all’80% tra le casalinghe e al 90% tra chi non ha mai lavorato. Dati simili vengono rilevati dal 1522, si tratta di un quadro stabile in tutte le regioni italiane. Quello della violenza economica è un fenomeno che non conosce né Sud né Nord, oggi, nella settimana contro la violenza sulle donne al centro di un dibattito tra accademiche, giudici e rappresentanti di associazioni della società civile, alla sede di Roma della Banca d’Italia.
Violenza sulle donne, che cos’è il controllo economico?
La violenza economica comprende qualsiasi azione che provochi un danno economico e finanziario alla vittima: dal controllo maniacale delle spese del partner, fino alla negazione del diritto di lavorare o conoscere il reddito familiare. Considerata a lungo una sottocategoria della violenza psicologica, solo di recente ha ottenuto maggiore riconoscimento, e ancora oggi, non ha una definizione univoca. Un primo passo avviene nel 2011, quando la Convenzione di Instanbul conia il sistema delle “tre P” – prevention, protection e prosecution – un approccio integrato che punta alla prevenzione della violenza, alla protezione delle vittime e alla persecuzione dei responsabili.
Nel 2017 la violenza economica viene definita dall’Eige – European Institute for Gender Equality – come il controllo della capacità della vittima di acquisire, utilizzare e mantenere risorse economiche. In Italia, nonostante la Direttiva 1385 del 2024 abbia riconosciuto formalmente questa forma di violenza, manca una definizione legale e il reato non è previsto dal codice penale. Come osserva Maria Pia Sergi, ex direttrice del carcere di Regina Coeli, la violenza economica, spesso matrice di abusi fisici o psicologici, viene riconosciuta e perseguita solo quando degenera in queste forme.
Violenza economica, quanto è esteso il fenomeno?
In Italia, il 10% degli individui è a rischio di violenza domestica, ma le donne esposte a questo rischio sono quasi il doppio rispetto agli uomini, una disuguaglianza che è più marcata che in altri Paesi, superata solo da Georgia, Moldavia e Perù. Secondo Giulia Zacchia, docente di Statistica presso la Sapienza Università di Roma, le donne italiane sono anche tra le meno indipendenti economicamente, con il 21,5% di loro in condizione di dipendenza, contro il 5% in Germania.
Le cause di questi tristi primati vanno ricercate nel mercato del lavoro e nel contesto culturale italiano. Quattro donne su dieci in Italia non hanno un lavoro, né lo cercano. Tra quelle che lavorano molte fanno professioni a basso valore aggiunto, con stipendi più bassi dei mariti, e quindi percepiti come più sacrificabili. Il rischio di dipendenza economica dal partner si aggrava se la donna vive al Sud, ha un basso livello di istruzione o in presenza di figli minori a carico. Come sottolinea la sociologa economica De Vita, dell’Università Sapienza di Roma, il rischio a cui bisogna sempre prestare attenzione è quelle delle troppe donne che rimangono escluse dalla sfera pubblica e relegate alla sfera del lavoro di cura all’interno delle mura domestiche.
Violenza economica, sensibilizzare per prevenire
La chiave per contrastare la violenza economica è di farne una questione pubblica. La violenza economica non è solo un problema della vittima, ma richiede una risposta unitaria della società civile. Gli strumenti che servono a contrastarla in tribunale non solo sufficienti. La legge prevede la possibilità di determinare l’assegno di mantenimento, in caso di separazione di una coppia in cui uno dei partner non era economicamente indipendente. Tale assegno può essere richiesto solo per coppie sposate ed è difficile da ottenere nella pratica. Molti lavoratori autonomi evitano di dover versare l’assegno trasferendo beni a familiari o entità terze per evitarne il pignoramento.
Nessun cambiamento nel mercato del lavoro o negli strumenti legali sradicherà completamente la violenza economica, poiché la radice del problema è culturale. Secondo l’Istat, nel 2014, solo un terzo delle donne considerava il successo lavorativo importante rispetto agli uomini. Inoltre, sia uomini che donne ritenevano che un datore di lavoro avrebbe dovuto assumere un uomo piuttosto che una donna. È quindi essenziale sensibilizzare i giovani riguardo a questi temi. L’istruzione riduce del 31% il rischio di dipendenza economica. L’alfabetizzazione finanziaria è cruciale per promuovere l’autonomia, e attuabile con iniziative come quelle della Banca d’Italia, che porta avanti campagne di sensibilizzazione nelle scuole e nei municipi di Roma.
La violenza economica è uno strumento di controllo che limita la libertà. Al quale si può far fronte con l’educazione. Come afferma Antonella Faieta di Telefono Rosa: “Le ragazze devono studiare, lavorare e avere la libertà di scegliere. Scegliere di restare, e soprattutto scegliere di andarsene”.