All’inizio c’è stato Michele Santoro. Con la sua TV ha cambiato il giornalismo: ha dato voce a persone non qualificate; non ha verificato la correttezza delle affermazioni che venivano fatte; ha dato in sostanza spazio allo spettacolo basato spesso su tesi precostituite, mettendo all’angolo la correttezza dell’informazione e la paziente verifica dei dati. E ha fatto scuola. Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata e bene ha fatto Marco Cecchini con un ampio articolo a sollevare il tema della attendibilità del nostro giornalismo e del suo ruolo nel corretto funzionamento delle nostre istituzioni e in definitiva, della democrazia.
Giornalismo: è cambiata l’etica del mestiere
Il tema riguarda sia gli aspetti così detti industriali (compresa la proprietà dei mezzi d’informazione) sia gli aspetti che potremmo definire “dell’etica del mestiere“ che magari è stata carente anche in tempi passati, ma che ora ha assunto modalità diverse, e probabilmente più gravi.
In primo luogo bisogna chiarire che la questione non riguarda solo la crisi dei quotidiani cartacei. Nulla infatti vieta di tentare di fare buon giornalismo anche sui mezzi nuovi dalla TV ai giornali on line. Né si può prescindere dagli assenti proprietari delle società editoriali.
Giornalismo: la lottizzazione della Prima Repubblica, il mercato nella Seconda
Qui la storia italiana è lunga e complessa. Se si guarda agli anni che vanno dal secondo dopoguerra si può vedere una contrapposizione tra informazione controllata dalla politica la cui forza è via via enormemente aumentata con l’affermazione della RAI, e i quotidiani (ed ancor più i settimanali) in mano ai privati che bene o male assicuravano un pluralismo “dei mezzi“ e non “nei mezzi“ che era il minimo indispensabile per continuare a mantenerci nell’ambito delle società liberali. Insomma il pluralismo non è assicurato dalla lottizzazione ma da una effettiva diversità degli assetti proprietari.
Crollata la Prima Repubblica c’è stato un periodo in cui le maglie si sono allentate e la presa degli editori sulle redazioni è stata più blanda. La mia esperienza alla direzione de Il Sole 24 Ore coincide con questo clima “ liberale” tanto che il mio editoriale di esordio si intitolava “Guardiano del mercato” chiarendo esplicitamente che il quotidiano non era al servizio dell’editore Confindustria, ma era impegnato ad aumentare, per quanto possibile, la trasparenza delle decisioni di chi aveva il potere di influire sul mercato.
Difficile distinguere l’informazione dallo spettacolo
Purtroppo con l’avvento di D’Amato alla presidenza, la Confindustria cambiò atteggiamento e volle ricondurre il giornale ad essere uno strumento al servizio degli interessi dell’associazione. Non concordo quindi con Paolo Pagliaro che ha recentemente sostenuto che una cosa è l’industria e cosa diversa è il buon giornalismo. Non è vero che oggi i quotidiani, pur vendendo sempre meno, sono più influenti di prima grazie al rilancio delle notizie fatto dalla TV e poi dai social. Anzi, questo rimpallo generale di informazione contribuisce a rendere tutto nebuloso rendendo più difficile distinguere una informazione accurata da una spettacolarizzata.
Giornalismo: la parola chiave è affidabilità
Ma qui veniamo al cuore dei problemi della professione giornalistica. Concordo con Bruno Manfellotto quando ha sostenuto che questa professione deve puntare alla qualità con una informazione “più aggressiva non nei toni ma nei contenuti “. In queste parole c’è tutto quello che si dovrebbe fare e non si fa. Ad esempio il fatto che numerosi giornalisti ( non tutti) partecipino ai numerosi talk show non in quanto esperti della materia,ma in quanto schierati politicamente in un campo o nell’altro, danneggia notevolmente la credibilità della professione. Molti pensano che queste comparsate possano giovare alla diffusione del giornale, ma poi i dati sulla diffusione dei quotidiani che mensilmente vengono pubblicati , smentiscono in maniera clamorosa questa affermazione.
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Il fatto di dover difendere posizioni politiche di parte inficia la credibilità dei giornalisti e delle stesse testate per le quali lavorano. La parola chiave per un mezzo di informazione è, a mio parere, l’affidabilità. Non è solo questione di autorevolezza, ma più semplicemente del fatto che i lettori devono sentire che quello che leggono è affidabile nel senso che è stato fatto con cura, controllando le fonti, spiegando i precedenti, contestando false affermazioni di interlocutori politici o economici. E invece nei talk televisivi passa di tutto. Spesso i conduttori fanno domande poco efficaci o non contestano risposte palesemente false per non indispettire l’ospite prestigioso che altrimenti non accetterebbe più di fare l’ospite.
Una ultima annotazione: la crisi dei quotidiani cartacei lascia a noi che siamo nati in quel mondo, una scia di tristezza. Tuttavia essa non significa la fine del buon giornalismo. Esso dovrà trovare degli assetti industriali di sostentamento, cosa che al momento ha trovato solo la TV. Ma non c’è ragione per cui la TV non debba fare giornalismo di migliore qualità. Bisogna superare la credenza che solo abbassando la qualità si può fare maggiore audience. Qualcuno lo fa o ci prova. Bisogna insistere. Sul web la partita è aperta, ma se si vorrà prima o poi convincere gli utenti a pagare qualcosa per leggere le informazioni, bisognerà offrire prodotti di qualità e pienamente affidabili.
Infine vorrei ricordare che ci occupiamo di giornalismo non per difendere gli interessi corporativi di una categoria poco amata e però indispensabile per l’equilibrio delle democrazie liberali che con tanta fatica abbiamo costruito in Occidente. Concordo con Alfredo Recanatesi, mio antico compagno di banco al Sole 24 Ore, quando afferma che occorre un buon giornalismo per evitare che la cattiva informazione porti un forte contributo al declino politico e culturale del nostro paese.