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Giornalismo made in Italy: è attendibile o no? E’ al servizio del potere o ne è il cane da guardia? E’ imparziale o di parte?

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Che giornalismo è quello italiano? Racconta sempre la verità o dice anche bugie? È al servizio del potere o ne è il cane da guardia? È al di sopra delle parti o è schierato? 

Noi giornalisti non godiamo di buona reputazione nel nostro Paese (e non solo nel nostro per la verità). Secondo un sondaggio commissionato dalla Università statale di Milano il 55 per cento degli intervistati ne dà un giudizio negativo. 

Il ruolo dei talk show e il declino dei media italiani

Ernesto Galli della Loggia in un recente editoriale sul Corriere della Sera ha scritto che il sistema dei media è il “regista” del fenomeno per cui in Italia si discute delle cose “futili e mai di quelle serie”. Ciò non è indifferente perché impedisce al dibattito pubblico di alzarsi di livello e affrontare i problemi veri. 

Del resto si capisce. In Italia il luogo deputato al confronto politico non è più il Parlamento, sono i talk show che come dice la parola stessa sono un mix di discussione e spettacolo.

Ad esempio, da vent’anni il Paese perde posizioni rispetto ai concorrenti ma il tema del declino non è sotto i riflettori. Il sistema economico italiano presenta aree di vivacità e di assoluta eccellenza, che fanno del made in Italy uno dei marchi più apprezzati al mondo ma nel suo insieme non riesce a sviluppare quell’aumento della produttività che è la base della crescita strutturale di qualunque economia. Di questo però non si parla. 

Ci sono settori dell’establishment che storcono la bocca per come i media raccontano il Paese. Anni fa, dopo la stagione di Stefano Folli, ai piani alti di Via Solferino si pensò di offrire la super direzione del Corriere della Sera a una personalità di indiscusso prestigio. L’iniziativa era eccentrica e senza precedenti, ma con essa si intendeva porre il primo giornale italiano sulla scia dei grandi quotidiani europei e anglosassoni (Nyt, Wapo, Ft, Faz, Figaro). Alla fine non se ne fece di nulla e in via Solferino tornò Paolo Mieli

Carlo Azeglio Ciampi cinque anni prima aveva coltivato l’idea di un’iniziativa che accendesse un serio confronto sul futuro del Paese. Si era ripromesso di fare del rischio di declino economico e sociale il cuore del suo primo discorso di fine anno. Ma poi ci ripensò. Temeva che i media avrebbero finito per trasformare il messaggio in una occasione di nuovo scontro politico accantonando la discussione sui problemi veri. 

Il modello mediterraneo di giornalismo

Naturalmente è sbagliato generalizzare. In Italia ci sono per fortuna eccellenti reporter e commentatori, giornalisti d’inchiesta e cani da guardia del potere, buoni giornali e siti web molto apprezzati votati all’analisi e all’approfondimento come quello che state leggendo. 

Purtuttavia i massmediologi Daniel Hallin e Paolo Mancini hanno inquadrato l’Italia nel suo complesso nel cosiddetto modello mediterraneo di giornalismo, un giornalismo più orizzontale che verticale, ossia che parla più al Palazzo che ai fruitori finali delle notizie (i famosi 1550 lettori evocati da Enzo Forcella in un libro che si dice gli costò la cacciata da La Stampa), un giornalismo che più che fare da ponte tra l’establishment e i cittadini si schiera (perdendo in questo modo qualche grado di “credibilità” secondo Fabio Martini, editorialista de La Stampa e studioso dei problemi dell’informazione). È anche per questo, secondo Hallin e Mancini, che il giornalismo italiano, concentrato sulle vicende del Palazzo, non ha mai visto arrivare il nuovo che avanzava

Non ha anticipato il fenomeno Lega (esploso nelle politiche del 1987 ma già evidente nelle precedenti elezioni locali), né Tangentopoli (scoperta grazie ai magistrati nonostante le avvisaglie non mancassero) né il boom dei Cinque Stelle, né (come molti nel mondo va detto)  la crisi finanziaria del 2008. Il giornalismo con le debite eccezioni ovviamente ha più che altro assecondato la classe politica piuttosto che stimolarla criticamente al cambiamento. 

I salotti della politica e del giornalismo

La cifra del circo mediatico è la contiguità con il potere. I salotti della politica e del giornalismo a Roma sono sempre aperti. Nella Prima Repubblica il monopolio lo aveva Maria Angiolillo, di cui Bruno Vespa e Candida Morvillo hanno raccontato con chirurgica precisione i riti. Oggi, mancata Donna Maria, il suo pubblico si è riversato in tanti salotti e salottini diversi. Ciò che vi accade è raccontato dall’informatissimo sito Dagospia e immortalato da Umberto Pizzi, il fotografo dei vip. 

Un noto parlamentare di centrodestra, uomo colto e navigato, è solito invitare a cena nella sua casa del centro una ventina di cronisti di varia collocazione ma comunque affidabili. I commensali si distribuiscono sui vari tavoli nell’ampio soggiorno. Il padrone di casa conosce tutto del centrodestra e ciò che dice aiuta a comprendere che cosa si muove nel suo campo politico. Alla fine, ogni partecipante riceve un regalo, in genere una cravatta di Marinella. Così fanno altri.

La contiguità con il potere riguarda la politica, l’economia, la finanza e la magistratura dove forse ha avuto ed ha la massima espressione. Ecco, come qualche tempo dopo Tangentopoli, commentò il fenomeno Indro Montanelli: “Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della storia nazionale avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani alle fonti dei giornali e dei Tg. E sai perché? I giornalisti, tranne ovvie eccezioni, durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla”. 

Entro certi limiti, la contiguità con il potere è un “fenomeno comune” anche ad altri paesi. Il punto è che i giornalisti italiani, fatte le dovute eccezioni naturalmente, non sembrano considerare il sistema informativo come “qualcosa che ha un valore in sé e ciò li rende più condizionabili e dunque tendenzialmente percepiti come meno credibili” spiega Richard Heuze, l’ex corrispondente di Le Figaro da Roma, uno che conosce bene la realtà del nostro paese in cui ormai ha deciso di vivere. 

Spettacolarizzazione e ricerca dello scontro politico

Su tutto il sistema informativo dominano i talk show la cui caratteristica principale è la spettacolarizzazione e la ricerca dello scontro politico più che l’approfondimento dei problemi. In Italia è potuto accadere che in piena guerra ucraina siano stati intervistati gli esponenti più radicali del “nemico” o addirittura il ministro degli Esteri della Federazione russa con la scusa di fare informazione, come se non lo conoscesse nessuno. Oppure può succedere che sempre trincerandosi dietro il vincolo del pluralismo, in piena pandemia si sia dato spazio alle più sguaiate tesi no vax. Non meraviglia che in qualche caso le persone più competenti si siano rifiutate di partecipare. Come Nathalie Tocci, direttrice dello Iai, secondo la quale la sua presenza nei talk finirebbe per “legittimare le tesi più strampalate che vi si espongono”. Grazie ai talk succede anche che si possa lanciare nell’empireo televisivo un personaggio discutibile come Alessandro Orsini, lanciato e poi abbandonato come uno straccio vecchio, quindi recuperato da Bianca Berlingue

Con l’arrivo al governo della Destra la musica non è cambiata. Anzi, semmai certe caratteristiche si sono accentuate, tenuto conto della forza della maggioranza parlamentare di cui dispone Giorgia Meloni, e la selezione dei media in funzione del grado di “amicizia” si è intesificata. 

Oggi il sistema informativo italiano ruota attorno a un vasto e variopinto circo mediatico. Il sistema è strutturato sostanzialmente su due emittenti  televisive, la Rai pubblica e Mediaset privata, due grandi quotidiani nazionali, diversi giornali politicamente schierati e alcuni fogli minori dotati di reputazione. La tv è diventata il principale medium di riferimento (e questo è normale), i social sono esplosi

Purtuttavia la carta stampata, sebbene in crescente difficoltà, non ha perso la sua influenza. Anche se le copie vendute si sono ridotte di due terzi il numero dei quotidiani è in aumento e di recente un imprenditore della sanità che è anche un politico di centro destra come Antonio Angelucci ha investito nella filiera dei fogli filogovernativi con l’arrivo di Giorgia Meloni al potere. Inoltre sono tornati in edicola l’Espresso, la Gazzetta del Mezzogiorno, l’Unità. Da qualche tempo è alle stampe il Quotidiano del Sud. La proprietà di un mezzo editoriale resta una fonte non trascurabile di potere.

Informazione di qualità vs rumore mediatico

Secondo gli editorialisti del Financial Times Ferdinando Giugliano e John Lloyd il rapporto tra giornalismo e politica in Italia è diventato più stretto con l’entrata in scena di Silvio Berlusconi che con il suo enorme potere economico e mediatico ha obbligato gli operatori dell’informazione a schierarsi, o di quà o di là (Eserciti di carta, Feltrinelli). 

Secondo uno studio della rivista Il Mulino tuttavia, quello prevalente oggi in Italia è un giornalismo succube della televisione, fatto di battute ad uso e consumo dei giornali del giorno dopo, dichiarazioni, interviste “al volo”, iperboli (la mucca nel corridoio di Pierluigi Bersani), in molti casi un giustizialismo capace di distruggere la vita di persone destinate ad essere riconosciute innocenti. Questa modalità di fare informazione, con le debite eccezioni naturalmente, ha trovato porte aperte in un personale politico disposto a trascurare le realtà istituzionali in favore dello spazio mediatico. Una comparsata in un talk show per un politico è più importante di una seduta parlamentare. 

L’informazione di qualità finisce così per perdersi in questo incessante rumore mediatico di fondo fatto di notizie non notizie, facili denunce per vellicare i gusti del “qui niente funziona” del pubblico, trattazione dei problemi più vari nello stesso contesto. Il paradosso del fenomeno è che la chiacchiera politica domina mentre il rispetto per la politica intesa come funzione alta latita, anche quando sulla scena sono apparsi politici che avevano l’ambizione di una vera modernizzazione del Paese.

 In questo contesto i politici devono stare al gioco. Il risultato di questo quotidiano mix di contenuti importanti e politica politicante, dibattito e intrattenimento è che non si riesce più a distinguere tra il buono e il cattivo e agli occhi del pubblico politici e giornalisti alla fine sembrano appartenere a un universo indistinguibile. Mentre i grandi problemi del Paese incancreniscono. 

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