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Giornalismo made in Italy: dopo l’effetto web le copie dei giornali si contano o si pesano? 10 spunti di riflessione

Proprio perché le copie dei giornali di carta calano ma la pubblicità non vincola più editori e giornalisti, torna d’attualità la famosa battuta di Enrico Cuccia sulle azioni ma in questo caso riferita alle copie: si contano o si pesano? Un’informazione più curata e molto più aggressiva non nei toni ma nei contenuti vale più di qualche copia in più

Giornalismo made in Italy: dopo l’effetto web le copie dei giornali si contano o si pesano? 10 spunti di riflessione

Qualche tempo fa fui invitato a pranzo a Milano da un rampantissimo editore. Voleva consultarmi, diceva, come “persona informata sui fatti” (dirigevo “Il Tirreno”, che allora vendeva 95mila copie!) riguardo alla sua ferma intenzione di dare vita a un quotidiano popolare. Ringraziandolo della stima e con tutto il garbo possibile argomentai che, per paradosso, in Italia un grande quotidiano popolare già c’era, il “Corriere della Sera”, allora diretto da Paolo Mieli. Erano i giorni della love story di Carlo e Camilla e feci notare al mio ospite che le piccanti intercettazioni telefoniche tra i due, Tampax e dintorni, non erano state rese pubbliche qui da noi da un emulo del “Sun” londinese, ma dalla corazzata di via Solferino.

Quell’editore era Urbano Cairo e qualche anno dopo comprò il “Corriere della Sera”.

La via italiana al giornalismo: nessuna distinzione tra “alto” e “basso”

Dunque la via italiana al giornalismo che non prevede distinzioni tra “alto” e “basso”, ma cerca da trent’anni almeno di far convivere l’uno e l’altro come in un grande supermercato c’entra molto nella nostra storia, ma non dice tutto.

10 spunti di riflessione sul giornalismo italiano

Non è il caso di tediare con lunghe analisi, ragion per cui mi limito a elencare sinteticamente dieci spunti di riflessione che, volendo, si potranno discutere, qui o altrove.

1. Da decenni i costi salgono e i ricavi calano. La distribuzione è la voce di costo più difficile da tagliare, e l’unica strada sarebbe rinunciare ad alcune piazze, come suggerì un manager ai dirigenti del “Manifesto” sull’orlo dell’ennesima crisi di sopravvivenza: “Siamo un quotidiano politico”, insorsero, e non lo fecero. Peggio per loro;

2. Il calo verticale della pubblicità ha preceduto e seguito quello delle copie, anche perché i grandi marchi vendono gran parte del loro fatturato all’estero: meglio siti web dedicati e spot tv;

3. Il conseguente taglio della foliazione ha ridotto gli spazi e con essi la possibilità di servizi più robusti. Magari le pagine si riservano alla “pubblicità mascherata”, quella redazionale: un virus che mina la credibilità del giornalismo;

4. l’ondata di prepensionamenti finanziati dallo Stato per alleggerire gli editori ha paurosamente impoverito le redazioni privandole dell’esperienza e della formazione dei più maturi;

5. ciò ha portato anche alla scomparsa di luoghi e riti che contribuivano a fare informazione: è scomparsa la “mazzetta” dei giornali che obbligava a leggere, meditare, sottolineare, tagliare, archiviare; non ci sono più le riunioni di redazione aperte a tutti, luoghi decisivi per suggerire temi e discutere errori; il “passaggio dei testi” in presenza del redattore era utile a evitare sfondoni, arricchire e migliorare l’articolo, suggerire integrazioni: ora non c’è più tempo e nella maggior parte dei casi tutto va direttamente in pagina; a “Repubblica” sono state abolite le scrivanie personali sostituite da ”postazioni” occupate di volta un volta da chi capita, sennò si lavora da casa;

6. entrato ormai in crisi, anche di immagine e di retribuzioni, il giornalismo non ha più attrattiva nei confronti dei giovani migliori che cercano altre strade e altri sbocchi professionali;

7. è vero ciò che ricorda Marco Cecchini, la stagione di Tangentopoli ha lasciato sul mestiere una pesante eredità di pigrizia professionale: poco lavoro per avere informazioni (dagli avvocati più che dai pm), magari con la soddisfazione di battersi contro la corruzione dilagante. Berlusconi e il berlusconismo, dichiarando guerra a un sistema politico accusato di consociativismo e spingendo dunque a schierarsi di qua o di là hanno fatto il resto;

8. dell’irruzione del web s’è detto e scritto tutto, in quanto all’intelligenza artificiale, il giornalismo del futuro, siamo ancora ai primi vagiti. Sottolineo solo due aspetti:

    a) si sperava che dalla rete arrivassero gli introiti persi dalla carta, ma non è così: per incassare l’equivalente di una copia in edicola occorrerebbero più o meno quattro abbonamenti digitali perché il loro prezzo è ora irrisorio (fino a poco fa era tutto gratis: il peccato originale);

   b) grazie al web si sono salvati “New York Times”, “Guardian”, “Le Monde” e altri grazie al vantaggio di una lingua letta e parlata ovunque: a sud e a nord di Firenze, invece, anche l’italiano suona un po’ straniero;

9. i nostri giornali, invece, sindrome suicida, si riempiono di riferimenti ai social dai quali traggono dettagli politichesi che interessano solo a chi li ha prodotti: “Internazionale” vive, e bene, ignorando quasi tutto questo e limitandosi a compilare un reader’s digest dai giornali di tutto il mondo;.

10. conclusioni? Difficili da trarre, specie ora che c’è una corsa ai giornali da parte di nuovi editori che non sono editori e che sembrano inseguire altri scopi. Ricorro di nuovo al paradosso: proprio perché le copie calano e la pubblicità non vincola più editori e giornalisti sarebbe il caso di parafrasare il Cuccia ricordato da Massimo Mucchetti: non contare le copie, ma pesarle, con un’informazione più curata e soprattutto molto più aggressiva, non nei toni e nelle parole, ma nei contenuti.

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**** L’autore è stato a lungo direttore del quotidiano Il Tirreno e del settimanale L’espresso

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