I riferimenti alla situazione economica di questo momento hanno una singolare analogia con le considerazioni dalle quali prendeva avvio nel 1962 la Nota aggiuntiva che mio padre redasse come ministro del Bilancio del Governo Fanfani che apriva la strada alla formazione del primo governo organico di centrosinistra.
“L’economia italiana – si leggeva in apertura di quel documento – è stata caratterizzata, anche nel 1961, dal permanere di un elevatissimo ritmo di accrescimento, con un saggio financo superiore a quello degli anni scorsi.” E tuttavia – aggiungeva – “le pur notevoli capacità di crescita dimostrate dall’economia italiana non ci consentono di raffigurare il nostro ulteriore sviluppo economico come un movimento automatico destinato a continuare, senza contraccolpi che possono porre in pericolo anche alcuni risultati recentemente conseguiti. La politica economica deve perciò darsi carico della predisposizione di tutti quei mezzi atti a rendere stabile il processo di sviluppo.”
A questo fine – si leggeva nella Nota – erano indispensabili profondi processi di trasformazione produttiva per creare nuovi ordini di convenienza per l’investimento privato e bisognava accompagnare tutto questo con una crescita della disponibilità di beni pubblici e di servizi collettivi, fino ad allora molto carenti. In questo quadro si trattava, inoltre, di spingere verso il riequilibrio fra le zone più avanzate e le zone depresse del nostro Paese. L’alternativa a questa politica consapevole era affidarsi al mercato, sapendo però – si legge nella Nota – che ben presto le contraddizioni non risolte avrebbero bloccato quel processo di sviluppo.
In realtà è questo che è accaduto a partire dagli anni Sessanta in avanti, proprio perché non si riuscì allora, e non si è riusciti da allora, a creare le condizioni che consentissero di rendere stabile quel processo di sviluppo.
Non è questa la sede per soffermarsi sulle cause di quell’insuccesso. Quello che voglio sottolineare è che la situazione odierna presenta una forte analogia con quel momento. Oggi stiamo attraversando una fase di ripresa dell’economia di portata per molti versi inaspettata. È una situazione del tutto nuova rispetto al passato recente e meno recente. I critici sottolineano che si tratta solo di un recupero rispetto ai livelli di reddito del 2019 e che ancora il nostro reddito pro-capite è sotto i livelli del 2007. È esatto, ma osservo anche negli anni ‘50 si cominciò con il recuperare i livelli dell’attività produttiva del 1938-39. Fu la continuità di quel ritmo di sviluppo oltre i livelli prebellici a costituire il miracolo economico.
Il problema di oggi è esattamente uguale a quello di allora: bisogna dare alla ripresa forza e continuità nel tempo. A tal fine serve impostare e condurre per il tempo necessario una politica economica tale da assicurare questi risultati. Servono investimenti nelle infrastrutture. Servono investimenti nella provvista di beni collettivi, asili, scuole, università, sanità e, nello stesso tempo, bisogna procedere alla trasformazione ecologica e informatica del sistema produttivo privato e pubblico. Per fare tutto questo bisogna mobilitare gli investimenti pubblici molto oltre i livelli di questi anni recenti, ma bisogna ottenere che ad essi si affianchino gli investimenti privati, una notevole mole di investimenti privati con capitali italiani e stranieri.
Per la componente pubblica, parte dei mezzi può venire dall’Europa con il Next Generation EU, ma per assicurarceli dobbiamo fare le riforme e realizzare nei tempi previsti i progetti. Accanto ai fondi europei serviranno fondi recuperati dal bilancio dello Stato, ma questo richiede una grande severità nella spesa corrente; serve un’austerità nella spesa nel bilancio di quest’anno e nei prossimi senza la quale il disegno diventa insostenibile. Servono infine investimenti dell’impresa privata italiana e straniera. Bisogna sapere che essi possono essere richiamati, ma per questo è indispensabile un quadro politico stabile, affidabile e duraturo.
Questo è ciò di cui ha bisogno l’Italia oggi: non si tratta di cose da assicurare una tantum: serve una continuità politica e di politica economica per il tempo necessario, che non si misura in giorni o mesi, ma in anni. Siamo quindi a un tornante della nostra storia per molti aspetti simile a quello del 1962. Allora la classe dirigente fallì, ma avevamo accumulato dei margini. In particolare, non avevamo un problema di debito pubblico perché l’inflazione bellica lo aveva spazzato via. Oggi non abbiamo margini: il debito pubblico, che allora non pesava, oggi pesa e può strozzare la ripresa in qualunque momento.
A chi affidare questi compiti che se non vogliamo definire immani dobbiamo almeno dirli assai impegnativi? Nel giugno 1944, viaggiando per nave verso gli Stati Uniti, dove si sarebbe svolta la conferenza di Bretton Woods, John Maynard Keynes lesse un libro appena uscito di Friedrich von Hayek, La strada verso la schiavitù, il manifesto dell’individualismo liberale che vedeva e vede nella crescita del settore pubblico il rischio della perdita della libertà. Era in un certo senso la risposta polemica alla Teoria generale, che aveva invece fornito la giustificazione teorica per l’intervento pubblico.
La reazione di Keynes alla lettura del libro fu sorprendente. Non polemizzò con Hayek. Gli scrisse una lettera dicendo di essere totalmente d’accordo con lui; anzi, disse di essersi commosso alla lettura del libro. Aggiunse però che, come lo stesso Hayek riconosceva, vi sono cose come la giustizia o la difesa che lo Stato deve fare. La questione non poteva quindi essere risolta in astratto, ma nel concreto delle situazioni e delle necessità del tempo. Io – scriveva Keynes – penso che lo Stato abbia compiti assolutamente rilevanti da svolgere e debba fare molto di più di quello che fa oggi, ma la garanzia della libertà è affidare questo compito a qualcuno che abbia chiaro il senso della necessità ma anche dei pericoli di questa impostazione. Intervento pubblico necessario, ma rigore nell’esame delle spese: la capacità di distinguere – diremmo oggi – fra debito buono e debito cattivo.
Signor Presidente della Repubblica, signor Presidente del Consiglio, l’Italia vive, per la prima volta dopo i mesi angosciosi del Covid e dopo anni di crescita stentata, una ripresa economica vigorosa. Si può avere la speranza di riprendere un cammino di sviluppo economico e sociale interrotto da troppo tempo e la cui interruzione ha allargato la povertà e le diseguaglianze e alimentato un grave malessere sociale e politico. Possono inverarsi oggi quelle condizioni che, invece, non si materializzarono nel 1962? Permettetemi a conclusione di questa giornata, di augurare a tutti noi, ma soprattutto all’Italia che agli artefici di questa condizione, agli artefici di questa svolta, venga dato tutto il tempo necessario ad assicurare che davvero questa ripresa sia, non una fiamma passeggera, ma l’inizio possibile di un secondo miracolo economico del Paese.