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Giorgetti, non toccare Draghi: due endorsement sono troppi

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Una confusione così nella Lega non s’era mai vista. Sarà la mazzata del caso Morisi all’evanescente credibilità del Capitano, Matteo Salvini, o sarà la paura, molto concreta, di perdere tutte le elezioni amministrative di domenica, tranne forse in Calabria, ma non ha torto chi dice che la tempesta perfetta che s’è abbattuta sulla Lega ha scaraventato fuori pista uno dei tre motori che animano il populismo italiano insieme a Fratelli d’Italia e ai Cinque Stelle.

Ma a gettare benzina sul fuoco che cova nella Lega è stata anche l’ambiziosa intervista alla Stampa del ministro e capo della delegazione leghista al Governo, Giancarlo Giorgetti. Il titolo che ne ha ricavato il quotidiano torinese sintetizza benissimo uno dei messaggi lanciati da Giorgetti: “Non esistono due Leghe: voglio Draghi al Quirinale e poi torniamo subito al voto“.

Non vale la pena di perdere tempo per addentrarsi nella dietrologia delle lotte di potere interne alla Lega tra Salvini e Giorgetti, che dopo il voto di domenica potrebbero cambiare. Non vale nemmeno la pena chiedersi se la sortita del ministro dello Sviluppo economico sia un’autocandidatura a Palazzo Chigi o uno sbarramento preventivo alla sempre più improbabile premiership post-elettorale di Salvini. Può essere vera la prima o la seconda interpretazione, ma il punto è un altro, anche se prima di arrivarci merita di essere valutato il secondo messaggio che Giorgetti ha lanciato nell’intervista alla Stampa, bocciando senza mezzi termini la candidatura di Enrico Michetti a sindaco di Roma in quota centrodestra e non nascondendo il suo endorsement al leader di Azione, Carlo Calenda.

Dice Giorgetti: “Chi vince le amministrative a Roma? Dipende da quanto Calenda riesce a intercettare il voto in uscita dalla destra. Se Calenda va al ballottaggio con Gualtieri ha buone possibilità di vincere. E, al netto delle esuberanze, mi pare che abbia le caratteristiche giuste per amministrare una città complessa come Roma”. Calenda incassa e ringrazia e, dopo il sostegno ricevuto da Giorgetti, che ha ovviamente fatto infuriare il centrodestra ma anche il Pd, è forse più facile spiegare la recente sbandata del leader centrista a favore di Mario Draghi al Quirinale. E qui veniamo al punto.

Come s’è detto in altra occasione, SuperMario Draghi sarebbe un Presidente della Repubblica eccellente, come lo è da Presidente del Consiglio, ed è infantile tirarlo per la giacca: sceglierà lui cosa fare sapendo che può fare tutto con grandissima dignità. Ma c’è una domanda che non si può eludere: oggi all’Italia Draghi serve più al Quirinale o a Palazzo Chigi? La risposta è nel messaggio di Giorgetti alla Stampa: per il ministro leghista Draghi al Quirinale è la mossa indispensabile per poi andare subito alle elezioni politiche.

Aspirazioni legittime per una forza politica che spera di vincere le elezioni politiche ma archiviare il Governo Draghi per andare al più presto al voto è davvero quel che serve al nostro Paese? E chi assicura le riforme che Draghi ha promesso all’Europa per incassare i 200 miliardi del Next Generation Eu e per cogliere un’occasione unica e irripetibile di spingere l’Italia su un sentiero di crescita economica elevata e stabile non per un anno soltanto ma per il tempo più lungo possibile? Le riforme dopo il voto le garantisce Giorgetti? O Salvini? O Meloni? Suvvia, non scherziamo. Ed è ora che anche il Pd e Calenda lo capiscano.

L’interesse generale del Paese – che vuol dire fare le riforme che solo il Governo Draghi può realisticamente sperare di realizzare – viene prima di ogni giochetto politico ed è su questo che si misura lo spessore e la lungimiranza di una classe politica. Senza se e senza ma. È l’interesse generale che fa la differenza. Quindi, concludendo: caro Giorgetti, l’endorsement a Calenda per il Campidoglio è una mossa sensata e intelligente, ma quello per Draghi al Quirinale è a dir poco sospetto. Di endorsement ne basta uno: quello per un sindaco riformista a Roma.

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