Con un occhio alla manovra finanziaria varata dal Governo, con l’altro ai tavoli di Bruxelles dove si è aperto il cantiere per la riforma della Politica agricola comune che, a giudicare dai primi documenti, si annuncia piena di incognite. Sono i due dossier ben in evidenza sul tavolo di Massimiliano Giansanti, l’imprenditore romano eletto da poco più di un anno alla presidenza di Confagricoltura, che First&Food ha incontrato nel suo austero ufficio romano a Palazzo della Valle.
Presidente, da dove partiamo?
Per il futuro dell’agricoltura oggi la partita più importante si gioca al tavolo comunitario con la riforma della Politica agricola comune, che si incrocia pericolosamente anche con il negoziato sulla Brexit. C’è poi anche un problema di tempistica, la necessità di chiudere il negoziato prima possibile.
Qual è secondo lei la priorità nel negoziato comunitario?
Sicuramente il budget agricolo per la prossima programmazione, va definito prima dello scioglimento dell’attuale Parlamento in carica, in grado di garantire la continuità degli equilibri nella ripartizione delle risorse tra gli Stati membri. Con le prossime elezioni europee tutto lascia pensare che ci sarà un rafforzamento delle forze populiste e sovraniste; bisognerà vedere come muterà la geografia politica e come ci si porrà nell’immediato futuro verso la “politica agricola comune”.
Vedremo come andrà a finire. Intanto, nella proposta della Commissione si torna a brandire l’introduzione di un tetto massimo degli aiuti alle grandi aziende agricole, al quale Confagricoltura si è sempre opposta.
E continueremo ad opporci ancora, perché significherebbe avallare un principio che va contro lo sviluppo e la crescita – anche in termini di innovazione – del sistema imprenditoriale agricolo; ed uno strumento che va ad indebolire la competitività delle imprese più strutturate, l’asse portante della produzione agricola europea e italiana. Ma non siamo i soli, ci sono altre 14 organizzazioni agricole europee schierate con noi sul fronte del no.
E sul negoziato per la Brexit cosa chiedete?
Il Regno Unito si configura come il quarto mercato di export alimentare per l’Italia, dopo Germania, Francia e Stati Uniti e, per alcuni settori, si tratta di un acquirente fondamentale; ad esempio quasi il 40% dell’export di Prosecco e circa il 20% delle nostre esportazioni di pelati e polpe di pomodoro sono assorbiti dall’UK. Anche per i formaggi grana (Parmigiano Reggiano e Grana Padano) l’export verso il Regno Unito conta per il 9% di quello totale. Dei 3,5 miliardi di euro che vale l’export agroalimentare, il 30% è rappresentato dai prodotti a denominazione d’origine e indicazione geografica. Per questo – oltre la necessità irrinunciabile che la Brexit non incida sul budget europeo – chiediamo che si definisca un accordo sullo spazio doganale e per gli scambi commerciali che non sfavorisca le nostre produzioni. Anche dopo la Brexit i marchi di origine dovranno continuare a essere tutelati nel Regno Unito sulla base della normativa europea.
Veniamo alla politica nazionale, come valuta la manovra economica varata dal Governo pentastellato?
In cosa consista nel dettaglio la manovra di bilancio ancora non si sa con certezza. Considero coraggiosa l’azione in essere di tentare di affrancarsi dai diktat comunitari. Però come imprenditore mi auguro che si trovi presto stabilità, senza la quale non c’è crescita economica, l’unico motore in grado di rilanciare il made in Italy e di creare nuovi posti di lavoro. Tornando alle problematiche comunitarie, come presidente degli imprenditori agricoli italiani devo però dire che ho molto apprezzato il messaggio lanciato a Bruxelles dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che l’Italia non accetterà le riduzioni del bilancio agricolo proposte dalla Commissione UE per i prossimi anni, scaricando di fatto sul budget agricolo il costo di 14 miliardi stimati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
L’agricoltura non sta attraversando un buon momento. L’ultimo dato sul pil agricolo segna crescita zero, dopo il forte calo del 4,4% dell’anno precedente. Cosa fare per invertire la rotta?
Al di là della congiuntura, che in agricoltura è condizionata da fattori esterni, come l’andamento climatico, va detto anche che manca da molti anni una strategia di politica agraria, una visione di lungo periodo. L’ultimo piano strategico risale a molti decenni fa, al piano Marcora. Poi, ci saranno anche stati bravi ministri, ma sempre impegnati a risolvere l’emergenza di turno.
Se fosse lei il ministro dell’agricoltura, cosa metterebbe in questo piano strategico?
Premesso che il ministro c’è ed è bene che ognuno faccia il suo lavoro, mi sentirei di consigliargli di investire in misura più importante su innovazione, ricerca e digitalizzazione. Sono le condizioni necessarie per scalare nuove posizioni nella grande sfida dei mercati internazionali. La parola chiave è la competitività del sistema.
I dati dell’export agroalimentare stanno però dando molte soddisfazioni, e continua a crescere.
Siamo tutti contenti di questo trend. Però, se si guarda la tabella complessiva dell’interscambio agroalimentare italiano, appare un dato molto preoccupante che nessuno ama ricordare: che l’import cresce ancora di più e i conti sono in rosso, soprattutto per i prodotti agricoli. Ci sono settori in cui l’Italia ha perso importanti primati produttivi e altri sono a rischio. Per questo credo sia ineludibile un’inversione di rotta: produrre di più puntando su quantità e qualità, stringendo un patto con l’industria per rafforzare l’intera filiera del Made in Italy.