Se San Paolo fu folgorato sulla Via di Damasco, Giacomo Sacchetto, 38 anni, Chef formatosi alla scuola dei grandi protagonisti della cucina italiana, insediatosi l’anno passato al ristorante La Cru della storica Villa Medici Maffei Balis Crema, a Romagnano, splendido borgo in provincia di Verona, fu invece folgorato al pranzo della prima comunione di suo fratello tanti anni fa. A fine pasto lo Chef e la sua brigata vennero chiamati in sala per l’applauso di ringraziamento. Si presentò un bell’omone tutto vestito di bianco, con la classica Toque in testa, un faccione rubicondo reso più imponente da due bei baffoni grigi, ci fu un’esplosione di applausi, di complimenti, di commenti, di pacche sulle spalle, tutta la sala fu come avvolta da una nuvola di buonumore, di allegria, di simpatia, di ammirazione. Questa scena, che sembrava tratta dal film Rataouille, lo colpì molto.
Era giovane, amava il calcio come tutti i ragazzi, se ne andava sempre, come poteva, a fare partite in giro con gli amici, sognava da grande di fare il calciatore. Ma quel giorno si interrogò molto. L’idea di correre appresso alla palla era forte, ma più forte gli si prospettò l’idea di diventare un “eroe” della cucina, di saper suscitare ammirazione per le sue preparazioni, di saper creare atmosfere di allegria, di convivialità, di partecipazione, di far star bene la gente, e perché no? di ricevere applausi di gratificazione e arrivare anche un giorno in TV.
A dire il vero non era alieno dai piaceri della tavola perché da piccolo, quando smetteva di giocare al calcio con i suoi amici in giro per il paese, le ore più belle le trascorreva, per sua ammissione, “con le mani in pasta” in cucina con la nonna Norina, cuoca di professione. I due se ne stavano insieme a lungo (il papà era infermiere e massaggiatore sportivo, praticamente lavorava tutto il giorno mentre la mamma doveva occuparsi di tutte le incombenze domestiche) e nonna Norina se lo teneva con sé chiedendogli di aiutarla con piccoli servizi mentre lei cucinava. La nonna era di origine Veneziana ed è così che il giovane Giacomo ha conosciuto fin da piccolo piatti e sapori incredibili come le Sarde in saor, i bigoli con le sarde, i polpi in umido, la polenta con il baccalà.
Non era certo aria da semplice pane e burro o pane e marmellata, ma di grande complicità. “Quando mi vedeva un po’ giù di corda, mi preparava la “banana sbatua”, la banana sbattuta con lo zucchero con l’aggiunta di un po’ di Vov, se la mamma non se ne accorgeva”.
Questo concetto della cucina come luogo di piacere non solo dello stomaco ma anche in generale, un luogo dove ci si ritrova con allegria, con il sorriso, dove ci si diverte, si sta bene assieme, ci si relaziona con amici e parenti, il giovane Sacchetto se l’è portato sempre appresso: per uno timido come lui dal carattere introverso la cucina diventava un luogo di distensione fisica e mentale.
Certo, anche se la prima esperienza culinaria da giovane fu un disastro “ancora me la ricordo, una Quiche Lorraine stracotta con alla base una pasta brisè durissima”, in realtà Sacchetto, non si perse d’animo: col tempo si è ampiamente rifatto. Subito dopo la scuola alberghiera forte degli insegnamenti casalinghi della nonna, iniziò il suo lungo apprendistato, senza soste, passando per le cucine dei più grandi chef in Italia e all’estero, non sentendosi mai soddisfatto del risultato raggiunto.
Dopo una breve esperienza da apprendista in uno dei ristoranti storici di Verona, imbocca subito la via dell’estero alla ricerca di esperienze e di aperture mentali e approda a Londra, a fianco dello Chef Paolo Simioni al Toto’s Restaurant, super ristorante frequentato dai reali, dall’alta borghesia, dai grandi imprenditori dove si afferma un concetto di cucina che tutela la qualità ma al tempo stesso promuove l’innovazione.
Da lì ritorna in Italia e se ne va al Ristorante “St. Hubertus” a San Cassiano (BZ), dove impera Norbert Niederkofler che ha vissuto oltre 15 anni all’estero, lavorando in Germania, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Austria e assimilando concetti, conoscenza delle tecniche di cottura e culture di cucina cosmopolita, di cui Giacomo Sacchetto si arricchisce nei suoi tre anni di permanenza accanto al grande Chef, allora una stella Michelin, oggi consacrato alle tre stelle che lo hanno posto in vetta alla classifica dei grandi cuochi italiani.
Dalle montagne della Val Badia lo ritroviamo di nuovo a Verona al Ristorante Perbellini di Isola Rizza, 2 stelle Michelin, e sono due anni molto proficui per il giovane Sacchetto che si irrobustisce apprendendo dal grande Chef l’estremo rigore con cui vengono selezionate le materie prime, ma anche il rispetto della stagionalità del territorio e la declinazione degli ingredienti che caratterizzano la sua cucina in un sapiente gioco di contrasti.
Oramai Sacchetto è uno chef a tutto tondo, sono lontani i tempi della sua disastrosa Quiche Lorraine. E non a caso Norbert Niederkofler, al quale è arrivata nel frattempo la seconda stella Michelin lo richiama al St. Hubertus in qualità di sous chef per due anni e mezzo. La tappa successiva della sua carriera vede Sacchetto accanto a Andrea Berton, che dalla sua esperienza con Gualtiero Marchesi ha ereditato un concetto di rigore in cucina che non conosce tentennamenti o scusanti, una cucina intesa come un meccanismo di un orologio svizzero che Berton dall’alto della sua esperienza pluristellata trasferisce a Sacchetto.
E poi ancora Verona, indovinate da chi? Ma con Giancarlo Perbellini che se lo tiene accanto, come suo braccio destro, per quattro anni, gli anni in cui conquista la seconda stella Michelin. “Quando sono arrivate le 2 stelle a Casa Perbellini – ricorda Sacchetto – è stata grande festa. Mi ero impegnato moltissimo in quella cucina e in quel gruppo di lavoro, che ormai era una famiglia, tanto che quando è arrivato il premio mi sono davvero sentito parte di quel successo”.
Arriviamo così ai giorni nostri. Nel frattempo un imprenditore, grande immobiliarista Veronese, Diego Zecchini ha portato avanti una operazione di recupero di un importante complesso di edifici nelle campagne veronesi: il restauro di una dimora storica appartenuta a una delle famiglie nobiliari più importanti d’Italia Villa Maffei Medici Balis Crema a Romagnano, la più antica Villa Veneta della Valpantena, inserita nel Registro delle Ville Venete Regionali.
La corte è composta da tre unità. Il corpo centrale è costituito dalla Villa un tempo adibita a dimora nobile, un secondo corpo un tempo adibito a casa del custode ed infine la stalla, la barchessa. Tutto il complesso è immerso in un grande Brolo, giardino-orto-frutteto e da terreni confinanti, coltivati a vigneto e oliveto.
Il restauro prevede una serie di alloggi per il Resort, una biblioteca, con l’archivio storico della famiglia Medici, grandi saloni affrescati con dipinti del ‘500 per eventi che possono ospitare fino a 150 persone, una Spa. E poi ovviamente un ristorante, una struttura innovativa con vetrata che si affaccia verso il prospiciente orto e la vallata e una dispensa-spaccio e laboratorio, per la vendita e trasformazione sia dei prodotti dell’orto, sia di prodotti del territorio selezionati dallo staff del ristorante.
Un progetto complesso che sembra incredibilmente anticipare quello che sarà il futuro della ristorazione e dell’hotellerie che si prospetta come una maggiore voglia di socializzazione, di rapporti interpersonali e sul piano del food di una maggiore attenzione alla naturalità, all’ambiente, alla biodiversità. Sacchetto per la sua giovane età, per le esperienze di alta scuola maturate presso grandi Chef, per la sua cultura del territorio e della memoria, è l’uomo giusto per presiedere a questa operazione.
“Il nostro progetto – spiega Diego Zecchini – nasce con lo scopo di soddisfare i bisogni dei consumatori attenti alla genuinità e tracciabilità dei prodotti, in un contesto storico che traspira cultura e patrimonio artistico e grazie al lavoro di uno chef e un team giovane, coesi e con alle spalle un percorso importante nel mondo della ristorazione. Ci proponiamo di mostrare al cliente quanto possa essere più gustoso e divertente consumare il proprio pasto conoscendo tutti i “retroscena” della produzione e della cucina.
Oltre ciò, ci poniamo come obiettivo quello di stimolare la socializzazione attraverso una serie di attività extra, come i workshop, in cui si può unire al piacere del cibo quello della conoscenza, inteso non come apprendimento ma come e proprio scambio culturale, destinato a un pubblico affamato, non solo di cibo, ma anche di cultura e voglia di star bene, in un ambiente unico e genuino”.
E perché non si abbiano dubbi sul rapporto fra cibo, territorio e cultura che sta alla base di questo originale progetto culinario-gastronomico il ristorante si chiama “La Cru”, nome derivato da una incisione di una croce a quattro bracci trovata su una pietra, antica di secoli, vicino alla vecchia dimora.
Da ricerche storiche effettuate negli archivi dell’arcivescovado si è giunti alle notizie di un camminamento di pellegrini che da “Caravaca de la Cruz” cittadina della Murcia, dove si conserva una reliquia della Croce incastonata in una croce a quattro bracci, passava parallelamente al Camino di Santiago per poi procedere verso Roma e la terra santa. Quasi una predestinazione del concetto di accoglienza che è alla base del ristorante.
“Uno dei valori fondamentali de La Cru – spiega lo Chef Giacomo Sacchetto, è la trasparenza. Del servizio e del cibo offerti, delle materie prime, che vengono dal nostro orto, dai nostri alberi e da una filiera garantita di artigiani che abbiamo scoperto e selezionato in loco. Un territorio, quello nel quale ci troviamo, che ha prodotti straordinari e in larga parte ancora poco conosciuti. L’altro elemento chiave è la squadra, unita dalla passione per una costante ricerca di sapori e storie”. Una asquadra che vede al suo fianco Alberto Andretta e Nicola Bertuzzi.
All’insegna di questa trasparenza gli ospiti del ristorante sono invitati a visitare l’orto biodinamico e il frutteto che sono parte della struttura, per constatare il lavoro di ricerca e recupero di produzioni tradizionali, anche fuori commercio. E in questa ottica sono gestite anche le produzioni vinicole e olearie, gestite direttamente dalla proprietà nei terreni attigui.
E dopo la visita c’è l’approccio ad una cucina, quella di Sacchetto, che si può definire in tre termini: territoriale, concreta, ricercata. Come le Mioline (pastina in brodo veneta) e Lumachine, il piatto dei bambini e della memoria, per chi è di queste parti, nella fattispecie il ricordo d’infanzia del giovane Giacomo con la nonna Norina, le Tagliatelle di Riso, gamberi di fiume, pesto di foglie di vite e polvere di vinaccia “uno dei piatti – tiene a sottolineare lo chef – che più mi rappresentano”.
Ma vanno citati anche lo Storione, crema di mais tostato, rapanello, foglia ostrica, caviale e vinaigrette acidulata, ottenuta dalle lische dello storione o ancora, il Ricordo di neve, una mousse di ricotta della Lessinia, Chantilly al limone, biscuit alla mandorla e limone, gelato di yogurt di capra e una cialda croccante di isomalto, che riprende, perfettamente delineata, la forma di un fiocco di neve, ricordo di quando lavorava a San Cassiano e andava a mangiare al Maso Runch.
Un territorio rievocato, come si può vedere e apprezzare nei fatti, nei suoi antichi significati e non a parole, ma un territorio che si eleva a eccellenza perché vi si riverberano le esperienze da Norbert Niederkofler, da Andrea Berton, da Giancarlo Perbellini, che Sacchetto ha saputo metabolizzare e rielaborare in una forma tutta sua originale, di elevata caratura.