In Germania il surplus dei conti con l’estero ha raggiunto livelli record: 8,1% del PIL nella media degli ultimi tre anni. È molto superiore al tetto (già generoso) fissato dalla Commissione europea (6,0%). Gli eccessivi avanzi tedeschi mettono a repentaglio la sostenibilità della crescita europea e perfino dell’Unione europea stessa; per giunta vanno a discapito delle stesse famiglie tedesche. Lo dimostra l’esperienza nel recente passato.
Surplus così elevati hanno, infatti, penalizzato i consumatori e i risparmiatori in Germania, attraverso almeno due canali: i) i guadagni di competitività tedeschi, ottenuti grazie a forti aumenti di produttività a cui non sono corrisposti analoghi incrementi salariali, hanno sfavorito i consumi delle famiglie (già contenuti); ciò ha scoraggiato anche gli investimenti e mantenuto debole la domanda interna rispetto alla produzione, causando un eccesso di risparmio che è il rovescio della medaglia del surplus nei conti con l’estero; ii) l’eccesso di risparmio si trasferisce inevitabilmente all’estero (è una questione puramente contabile) e crea accumulazione di crediti verso i paesi in deficit, che a lungo andare diventano insostenibili e generano crisi, che conducono a svalutare la ricchezza accumulata sull’estero; un cattivo affare per i risparmiatori tedeschi.
L’ultima di queste crisi è stata quella dei debiti sovrani nell’Area euro. Il rientro da essa è avvenuto via deflazione e caduta della domanda interna nei paesi periferici. E il surplus commerciale tedesco nei confronti degli altri paesi dell’Area euro è diminuito attraverso minori esportazioni e importazioni; la riduzione delle importazioni tedesche ha contribuito alla debolezza della domanda interna di tutta l’Area euro, accentuando la spirale negativa per investimenti e PIL. Tutto ciò porta a spinte disgregatrici dell’Unione europea alla cui origine c’è, appunto, anche l’eccessivo surplus nei conti con l’estero tedesco. I paesi periferici devono proseguire lungo la strada delle riforme strutturali per guadagnare competitività e favorire la crescita. Ma il percorso sarebbe ancora troppo lungo e a rischio di nuovi inciampi in assenza di una decisa politica tedesca di rafforzamento dei salari e dei consumi, con un forte stimolo alla domanda interna e una maggiore inflazione, anche con misure espansive di bilancio. A tutto vantaggio delle stesse famiglie tedesche.
L’azione della BCE, anche grazie a strumenti non convenzionali, ha sostenuto il valore del credito tedesco verso l’estero. La fase di ripresa più robusta nell’Eurozona avvicina l’inizio della normalizzazione della politica monetaria, anche perché rassicura i mercati circa la sostenibilità dei debiti esteri dei paesi periferici. È una fase delicata e richiede un rinnovato sforzo congiunto e simmetrico di riequilibrio sostenibile dei fondamentali economici dei paesi europei.
Surplus eccessivi a danno delle stesse famiglie tedesche:…
Il saldo delle partite correnti della Germania è positivo dal 2002 ed è salito rapidamente fino al +6,7% del PIL nel 2007. Dopo una modesta correzione all’inizio della crisi, ha raggiunto un massimo dell’8,5% nel 2015; nella prima metà del 2017 è stato pari al +7,6% del PIL, secondo i dati destagionalizzati Bundesbank. Questi livelli sono considerati eccessivi secondo gli stessi parametri della Commissione europea, più tolleranti dal lato degli attivi rispetto a quello dei passivi: il cosiddetto Six-pack, infatti, sancisce che un surplus non debba superare il 6% del PIL nella media degli ultimi tre anni, mentre il limite per il deficit è fissato al 4%.
Il surplus tedesco rimarrà ampiamente sopra la soglia del 6% molto a lungo: secondo le previsioni FMI, nel 2022 la media triennale sarà ancora pari al 7,5% del PIL. Al contrario, i saldi dei paesi europei che avevano registrato un deficit con l’estero eccessivo (come Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) o vicino al limite (come l’Italia) sono tutti risaliti velocemente, via riduzione della domanda interna e deflazione competitiva. La correzione asimmetrica degli squilibri nei conti con l’estero ha aggravato e allungato la recessione europea, come osservato in più occasioni dal CSC1. Allo stesso tempo, i surplus eccessivi e persistenti della Germania, insostenibili nel lungo periodo, hanno danneggiato gli stessi consumatori e risparmiatori tedeschi.
Gli avanzi correnti hanno costituito, infatti, un trasferimento di risorse all’estero, con la rinuncia a maggiori consumi e investimenti privati e pubblici, specie in infrastrutture; ciò ha comportato una minore crescita del PIL tedesco, stimata nell’ordine di un punto perso all’anno nell’ultimo ventennio. Inoltre, la ricchezza accumulata dai tedeschi in attività estere ha subìto ingenti perdite di valutazione (prima di essere sostenuta dalle politiche BCE). Infine, l’alta disoccupazione nei paesi periferici europei (dovuta anche agli squilibri nei conti con l’estero) ha spinto verso il mercato del lavoro tedesco (in piena occupazione) i flussi di immigrazione provenienti dai paesi extra-UE, generando in Germania forti tensioni sociali, che si sono pienamente manifestate nelle ultime elezioni politiche, con la formidabile ascesa
dei partiti populisti e nazionalistici.
Chi difende la posizione della Germania cita solitamente tre argomentazioni: primo, il surplus è determinato dalla competitività delle merci tedesche; secondo, l’avanzo commerciale della Germania nei confronti degli altri paesi europei è rientrato; terzo, il risparmio tedesco ha finanziato i debiti dei paesi periferici e sono dunque questi ultimi a dover sopportare il costo del riequilibrio, come nella storia della formica e della cicala. Sono, però, tesi parziali, che ignorano alcuni fondamentali principi macroeconomici.
… troppo risparmio ha frenato la crescita, …
In primo luogo, è vero che la bilancia commerciale costituisce la voce più rilevante delle partite correnti e, quindi, le sue variazioni guidano, in molti casi, la dinamica del saldo complessivo. Nel caso della Germania, in particolare, i surplus commerciale e corrente sono andati di pari passo e sono simili nel livello a partire dal 2009; mentre nei primi anni Duemila il miglioramento dei conti con l’estero è stato favorito anche dalla salita dei saldi dei servizi e dei redditi primari. Ciò che conta, comunque, è l’export netto, cioè la differenza tra esportazioni e
importazioni. I guadagni di competitività tedeschi, soprattutto attraverso politiche di moderazione salariale, hanno favorito le prime e, allo stesso tempo, frenato le seconde, perché hanno penalizzato i consumi delle famiglie, già strutturalmente bassi.
Durante la crisi la debolezza della domanda interna, in assenza di un significativo stimolo di bilancio pubblico, ha rallentato la dinamica del PIL, anche in Germania: minore domanda significa più bassi produzione e investimenti, che a loro volta riducono la domanda, e così via. È il paradosso della parsimonia di Keynes: una maggiore propensione al risparmio può portare a minori PIL e risparmio. In effetti, nei conti nazionali l’export netto è pari, per definizione, all’eccesso del risparmio sugli investimenti. Contabilmente, l’aumento delle esportazioni nette tedesche, in percentuale del PIL, è stato associato a un incremento del risparmio e a una sostanziale stabilità degli investimenti; il maggiore risparmio è stato dovuto, in particolare, a un calo dei consumi finali delle famiglie di circa quattro punti di PIL rispetto alla media degli anni Duemila pre-crisi (al 51,5% nel 2016), mentre i consumi pubblici sono aumentati solo di un punto (al 19,6%).
In altre parole, i tedeschi hanno tirato la cinghia. Parte di questo eccesso di risparmio dipende da fattori strutturali dell’economia tedesca. Il più rilevante è l’invecchiamento atteso della popolazione, che, in combinazione con un’età media già elevata, produce una forte motivazione a risparmiare per finanziare il consumo in età avanzata. Tuttavia, tali fattori, nel complesso, possono spiegare solo parzialmente l’attuale livello del surplus corrente tedesco. Secondo stime FMI, infatti, nel 2016 il saldo corrente coerente con i fondamentali economici di medio-lungo periodo è inferiore di 4,5 punti di PIL rispetto a quello effettivamente realizzato; nel Mondo solo Singapore e Tailandia, oltre alla Germania, presentano surplus “sostanzialmente più forti”, cioè superiori di più di 4 punti di PIL, di quello stimato in base ai fondamentali.
… minori scambi intra-Area euro hanno ridotto la domanda europea…
In secondo luogo, il surplus commerciale tedesco si è effettivamente ridotto nei confronti degli altri paesi dell’Area euro, mentre si è ampliato nei confronti dei paesi extra-area. Il rientro del surplus tedesco intra-area è stato comunque parziale e si è interrotto negli ultimi anni: dal massimo del 4,7% del PIL nel 2007 è sceso all’1,8% nel 2013, ma è poi risalito al 2,5% nel 2016. Inoltre, l’aspetto più rilevante è che la dinamica del saldo intra-area dal 2011 in poi risulta da un calo di entrambi i flussi commerciali, in percentuale del PIL: più
pronunciato per l’export che per l’import nel 2012-2013 (con una discesa del surplus) e viceversa nel 2015-2016. Per quanto riguarda la dinamica extra-area, invece, a un calo dell’import è stata associata una sostanziale stabilità dell’export.
In altre parole, la riduzione delle importazioni tedesche ha quindi contribuito alla generale debolezza della domanda europea, accentuando la spirale negativa per investimenti e PIL. Negli scambi con l’estero ha agito un ulteriore canale di trasmissione, via catene internazionali del valore: la minore produzione delle imprese a valle, tipicamente tedesche, dovuta alle loro minori esportazioni nel resto dell’Area euro, si è tradotta in minore domanda di semilavorati per le imprese a monte. Un canale rilevante, data l’elevata frammentazione internazionale della produzione all’interno della fabbrica Europa. In un’ottica europea, i flussi commerciali tra i paesi membri dell’UE costituiscono domanda interna (sia di beni finali sia di prodotti intermedi), sulla quale il mercato unico, con la sua stazza e la presenza di acquirenti sofisticati e con alto potere d’acquisto, è naturalmente incentrato. Il modello tedesco da piccola economia aperta, quindi, non è applicabile su scala continentale.
… e i crediti tedeschi verso l’estero hanno perso valore
Infine, i surplus tedeschi hanno finanziato, per definizione contabile, i deficit degli altri paesi, in particolare di quelli periferici europei prima della crisi. I risparmiatori tedeschi detengono così, sia direttamente sia indirettamente, attività nette nei confronti di questi paesi (ma anche, per esempio, degli USA). Secondo i commentatori pro-posizione tedesca, questo legame è tenuto in vita artificialmente dalle politiche iper-espansive della BCE, che si riflettono tecnicamente nei saldi Target2 tra le banche centrali nazionali, con interessi nulli pagati sui debiti; cosicché il peso degli eccessi delle cicale della periferia europea ricade ingiustamente sulla formica tedesca. La metafora, però, è fuorviante, come appare chiaro già nell’analisi precedente.
Al di là del giudizio morale, credito e debito sono evidentemente due facce della stessa medaglia; di conseguenza, se le altre economie entrano in crisi, i tedeschi ne hanno un danno anche attraverso la svalutazione della ricchezza accumulata in attività di quelle economie.
L’accumulazione di una posizione netta positiva dei paesi in surplus nei confronti di quelli in deficit non può andare avanti indefinitamente. In regime di cambi flessibili, i movimenti valutari agiscono da stabilizzatori automatici, con un apprezzamento relativo della valuta del paese in attivo, quando cessa il finanziamento volontario dei deficit. Altrimenti, in assenza di correzioni da parte delle politiche economiche, i mercati iniziano a dubitare della capacità dei paesi in deficit di ripagare il debito e i titoli emessi nella loro valuta perdono valore. In entrambi i casi, le attività nette del paese in surplus tendono a registrare aggiustamenti negativi di valutazione e quindi l’investimento estero si rivela un cattivo affare per i risparmiatori (come si osserva nella grande maggioranza degli episodi storici).
In casi estremi si verifica una crisi finanziaria e/o valutaria del paese debitore, con un crollo del valore delle attività nette verso l’estero del paese in surplus. È ciò che è accaduto nella crisi dei debiti sovrani europei nel 2010-2011 e, prima, nella crisi finanziaria generata dai mutui subprime americani (2007-2008). In quegli anni la posizione netta verso l’estero della Germania ha subito pesanti correzioni al ribasso. Negli anni più recenti il valore delle attività tedesche è stato sostenuto dall’intervento della BCE. Dopo il 2011, anche grazie alle politiche monetarie non convenzionali della BCE, la posizione netta verso l’estero della Germania è aumentata più rapidamente dell’accumularsi dei suoi surplus correnti, grazie alla ripresa del valore degli asset dei paesi periferici. A fine 2016 era pari al 54,9% del PIL. Porta, tuttavia, ancora il segno della crisi, essendo inferiore di ben 17,0 punti di PIL al livello che si ottiene cumulando tutti gli avanzi di parte corrente registrati dopo il 2002 (figura C). In altre parole, c’è stata una distruzione di parte dell’eccesso di risparmio tedesco, cosicché i cittadini tedeschi non solo hanno rinunciato a consumi e accettato salari più bassi rispetto ai guadagni di produttività, ma hanno visto poi parzialmente (e inevitabilmente) vanificare questi sforzi.
Necessario uno sforzo simmetrico a beneficio di tutti
La fase di ripresa più robusta nell’Eurozona avvicina l’inizio della normalizzazione della politica monetaria, anche perché rassicura i mercati circa la sostenibilità dei debiti esteri dei paesi periferici. È una fase delicata e richiede un rinnovato sforzo congiunto e simmetrico di riequilibrio sostenibile dei fondamentali economici dei paesi europei. Infatti, come osservava Tommaso Padoa-Schioppa, non è sempre vero il principio della casa in ordine, iscritto nelle regole europee soprattutto per volere della Germania, secondo il quale mettere a posto la propria casa è condizione sufficiente affinché la comunità funzioni; occorre, invece, pensare ai beni comuni e alle esternalità che si generano.
I paesi periferici devono continuare a fare i compiti a casa, proseguendo lungo la strada delle riforme strutturali per guadagnare competitività e favorire la crescita. Ma il percorso sarebbe ancora troppo lungo e a rischio di nuovi inciampi in assenza di una decisa politica tedesca di rafforzamento dei salari e dei consumi, con un forte stimolo alla domanda e una maggiore inflazione, anche con misure espansive di bilancio. Ciò consentirebbe un aggiustamento lungo più direzioni: maggiori importazioni ed esportazioni tedesche e dei periferici, dunque una maggiore domanda interna europea, e un riallineamento della competitività di prezzo senza spinte deflazionistiche. A tutto vantaggio delle stesse famiglie tedesche, in termini di maggiore crescita del reddito, standard di vita più elevati e maggiore valore dei propri risparmi.