Il presidente Biden, parlando dei problemi che affliggono l’economia cinese, ha detto che “si tratta di una brutta notizia anche per noi: quando ci sono problemi, si tende a fare cose sbagliate”. Parole sagge che, fatte le debite proporzioni, possono essere applicate al rapporto sempre complesso tra Italia e Germania, grandi partner commerciali e politici attraverso la Ue, ma da sempre divisi sulle scelte di politica monetaria e fiscale, specie negli anni difficili. E per la Germania il 2023 si sta rivelando davvero un anno nero.
Germania: l’economia è in affanno, manifattura in crisi
Gli ultimi dati Pmi hanno confermato la crisi d’oltre Reno, specie della manifattura: l’attività delle imprese tedesche ad agosto si è contratta al ritmo più rapido da oltre tre anni. L’indice Pmi flash composito Hcob tedesco, curato da S&P Global, è sceso a 44,7 punti da 48,5 di luglio, toccando il minimo da maggio 2020. Secondo le ultime previsioni del Fmi, la Germania nel 2023 sarà l’unico paese del G7 a segnare una contrazione nella crescita, pari allo 0,1 per cento. Degli ultimi cinque trimestri, solo due hanno avuto segno positivo.
Tempesta perfetta sull’industria tedesca
Non mancano le ragioni per spiegare la frenata, Sull’industria tedesca, da vent’anni leader mondiale dell’export, si è abbattuta una tempesta perfetta. Dopo aver goduto dei vantaggi della globalizzazione affidando agli Stati Uniti la propria sicurezza militare, quella energetica alla Russia e quella manifatturiera alla partnership con la Cina, la Germania sta facendo quasi all’improvviso i conti con una realtà nuova, in buona parte legata all’esplosione della guerra ucraina.
E così Berlino si ritrova a fronteggiare costi energetici non competitivi in un momento di particolare fragilità della sua industria più importante, quella dell’auto, mentre riemergono acciacchi vecchi e nuovi: una eccessiva dipendenza dalla tradizione ingegneristica di vecchia scuola, infrastrutture invecchiate, un sistema finanziario molto statico e frammentato cui corrisponde una scarsa reattività politica e commerciale a orientarsi sui settori a maggiore crescita. In sintesi, il Paese si sente minacciato dalla perdita della sua capacità di competere.
Nel 2022 la Germania ha effettuato investimenti diretti esteri per 125 miliardi di euro, a fronte di soli 10,5 miliardi di investimenti diretti esteri in Germania. Il sistema tedesco di produzione di brevetti, da sempre alla base dell’eccellenza manifatturiera del paese, mostra evidenze di rallentamento e un vero ritardo nei settori più innovativi. Nel settore della tecnologia software ha un campione, SAP, che data dagli anni Settanta e praticamente null’altro. Gli investimenti in venture capital sono complessivamente esigui, il sistema finanziario è suddiviso tra la sclerotizzata rete di casse di risparmio politicizzate e due banche di grandi dimensioni, Deutsche Bank e Commerzbank, che tuttavia sono piccole rispetto ai campioni internazionali.
Giornali: modello tedesco al capolinea
Il risultato è il timore diffuso che la Germania sia giunta al capolinea del suo modello di sviluppo e debba reinventarsi, con un processo necessariamente non breve e doloroso.
A dar voce a questo disagio in queste settimane sono stati i giornali: “Il made in Germany è finito!” titolava il 3 agosto il sofisticato Die Zeit, mentre la popolare Bild, il quotidiano più diffuso, invocava “Sos! La nostra economia sta affondando” Il 16 agosto al coro si è aggiunto l’autorevole Die Welt, mettendo il dito su una presunta piaga: “Il successo dell’America è il declino della Germania” stabilendo un legame diretto tra gli investimenti in Usa di Volkswagen e dei colossi chimici e il calo della competitività tedesca. Il colpo di grazia è arrivato però dall’Economist che il 19 agosto ha ripubblicato una copertina del 1999 dal titolo “Germania, il malato d’Europa”.
Germania: fondamentali solidi, le basi da cui ripartire
Ha senso il parallelo? Allora, un quarto di secolo fa, la Repubblica Federale faceva i conti con i costi della riunificazione, sia sul piano finanziario che sul fronte dell’occupazione. Ma oggi la Germania, che a suo tempo chiese ed ottenne dall’Unione Europea la deroga ai vincoli di Maastricht, è in condizioni senz’altro più floride: l’occupazione è ai massimi storici (il 77 per cento dei tedeschi ha un lavoro), e Berlino è l’unico tra i grandi Paesi che può vantare una tripla A per i suoi titoli.
I fondamentali insomma sono solidi, come sottolinea parlando con Le Monde l’economista Ulrike Melmendier di Berkeley, nonché membro del consiglio dei saggi dell’economia d’oltre Reno. “Sono assolutamente convinta – dice – che siamo in grado di superare le difficoltà attuali così come abbiamo fatto dopo lo shock petrolifero e negli anni Novanta. Ma quel che mi preoccupa è l’esitazione dei politici a sposare il necessario processo di trasformazione”.
All’inizio del millennio Gerhard Schroeder mise le basi della ripresa grazie alle riforme del mercato del lavoro che vennero poi sviluppate da Angela Merkel, con un gioco di squadra esteso alla politica estera (rapporti con Russia e Cina i primis) che consolidarono la leadership tedesca, motore primo dell’economia europea.
Gli aiuti di stato tedeschi complicano la strada per il Patto di Stabilità Ue
Oggi, al contrario, la coalizione di governo, composta da tre partiti di dimensioni simili, appare fortemente divisa su alcuni temi chiave, dai sussidi all’energia all’immigrazione. Incapace, comunque, di prendere un’iniziativa forte in chiave europea, vista l’ostilità del liberale Christian Lindner ad una svolta nella politica fiscale di Bruxelles. E così il governo, dopo il via libera Ue, ha scelto la strada degli aiuti di Stato per favorire la ripresa dell’industria con forti aiuti alle imprese Usa e di Taiwan per recuperare i ritardi in alcuni settori, tra cui 30 miliardi per nuovi impianti di semiconduttori snobbando soluzioni a livello della Comunità. In questo modo si allarga il gap con l’industria del Sud Europa, Italia in testa che già è destinata a pagare a caro prezzo la ristrutturazione dell’industria dell’auto tedesca, fonte di grandi commesse per il made in Italy.
E così la Germania dotata di tasche profonde ma comunque piccole per competere con Cina e Stati Uniti, rischia di entrare in un periodo di bassa crescita fortemente problematico per l’intero continente, Italia in testa. Per evitarlo occorrerebbe un salto di qualità in sede Ue al momento di trattare il nuovo patto di stabilità. Ma, come sostiene Biden, quando ci sono problemi è facile scegliere la soluzione peggiore. Anche a Berlino o a Roma, ancora ferma alla disputa sul Mes.