Una sfida al calor bianco come quella tra Mediobanca e Caltagirone che sta infiammando la primavera della finanza italiana per il controllo delle Generali non si vedeva da tempo. La posta in gioco, finanziaria e di potere al tempo stesso, è davvero alta: le Generali sono la prima compagnia assicurativa italiana e uno dei titoli leader della Borsa di Piazza Affari, ma anche uno dei maggiori custodi del debito pubblico italiano, avendo in portafoglio 63 miliardi di euro di Btp. Per rintracciare uno scontro di pari dimensione nel cuore del capitalismo italiano bisogna tornare addirittura al secolo scorso, ed esattamente al febbraio del 1999, quando l’Olivetti di Roberto Colaninno – con il sostegno dei bucanieri bresciani capeggiati da Chicco Gnutti, dell’ineffabile Mediobanca e soprattutto con l’appoggio politico determinante del Governo D’Alema – lanciò l’Opa a debito di 102 mila miliardi di lire su Telecom Italia, che, indebitando fino al collo la prima compagnia telefonica italiana, finì per travolgerla e inguaiarla fino ai giorni nostri.
Tutti i numeri dei due piani che vanno presi molto con le pinze
A dicembre Philippe Donnet – il Ceo di Generali che si candida per il terzo mandato e che gode del pieno sostegno di Mediobanca, primo azionista del Leone – ha presentato il suo piano 2022-24 e venerdì scorso Caltagirone, che è il secondo azionista delle Generali, ha fatto altrettanto con il suo contropiano.
Il piano di Donnet
In sintesi, il piano Donnet si muove nel segno della continuità e prevede nel triennio un utile netto di 3,48 miliardi di euro (in crescita del 6-8 per cento), investimenti in tecnologia per 1,1 miliardi, risorse da destinare ad acquisizioni per 3 miliardi, flussi di cassa pari a 8,5 miliardi e dividendi tra i 5,2 e i 5.6 miliardi di euro.
E il contropiano Caltagirone
Essendo stato presentato dopo e nascendo dallo sfidante, il contropiano di Caltagirone presenta sulla carta numeri più ambiziosi: 4,2 miliardi di utile netto, investimenti in tecnologia pari a 1,5-1,6 miliardi, 7 miliardi per acquisizioni (di cui 2,5 a debito), 9,5-10,5 miliardi di flussi di cassa e tra 5,2 e i 5,6 miliardi di dividendi.
Attenzione ai numeri
I numeri però vanno presi molto con le pinze, perché un conto è proporre piani e un altro conto è saperli realizzare. Da questo punto di vista, se sulla carta i numeri di Caltagirone sono più sfidanti, sul piano dell’attuabilità del piano il track record avvantaggia Donnet, che ha al suo attivo due piani strategici triennali “portati a compimento con successo, centrando o superando ogni volta tutti gli obiettivi, finanziari e industriali, annunciati al mercato”.
Meglio l’usato sicuro di Donnet o l’asticella più alta di Costamagna?
In buona sostanza, l’assemblea delle Generali del 29 aprile dovrà scegliere tra due piani alternativi ma anche tra due diversi stili di gestione – quello collaudato di Donnet e quello più aggressivo degli sfidanti – e due diverse squadre. In caso di vittoria, la prima, che ha in Donnet il suo leader assoluto, può contare su un nuovo presidente, Andrea Sironi (anche presidente della Borsa italiana), su una rinnovata composizione del board in cui figurano professionisti di fama, e su un management collaudato ma mediamente giovane, in cui spiccano soprattutto il Ceo di Generali Italia (Marco Sesana), quello della Banca Generali (Gian Maria Mossa) e quello di Generali Deutschland (Giovanni Liverani, chiamato nei giorni scorsi a sostituire ad interim anche il capo di Generali Austria ed Est Europa Luciano Cirinà, candidatosi a sorpresa nella lista Caltagirone).
A sua volta, Caltagirone ha candidato alla presidenza di Generali un banchiere indipendente di alto profilo come Claudio Costamagna, già top manager di Goldman Sachs e poi presidente di Cassa depositi e prestiti, e alla poltrona di Ceo in alternativa a Donnet proprio uno dei principali collaboratori dell’attuale capo del Leone, il triestino Cirinà, la cui candidatura nella lista concorrente sarebbe sicuramente stata più elegante se fosse stata preceduta dalle dimissioni dalla compagnia assicurativa in cui ha lavorato tanti anni. Anche Caltagirone ha raccolto professionisti di primo piano per il nuovo board, tra cui Flavio Cattaneo – già Ad di Terna, Rai, Telecom Italia e Ntv –, e promette di scegliere il nuovo Direttore Generale nelle file stesse del management attuale del Leone.
Il punto debole di Mediobanca e quello di Caltagirone
Tanto il piano e la squadra sostenuti da Mediobanca quanto quelli targati Caltagirone puntano per i prossimi anni a una crescita del Leone, sia attraverso una maggior generazione di profitti che attraverso operazioni straordinarie di M&A: in modo più sobrio (e senza creare nuovo debito) nella logica di Donnet; in modo più aggressivo e ambizioso (ma anche con più debito) nella logica di Costamagna, che ha ispirato e ispira la strategia di Caltagirone.
Ma c’è un ineludibile punto debole sia in Mediobanca che in Caltagirone, che affonda le sue radici negli ultimi vent’anni. Puntare a una maggior crescita delle Generali è lodevole e si potrebbe dire che è sempre meglio tardi che mai, ma che senso ha farlo adesso, in un contesto molto più complicato e dove le possibili prede sono irraggiungibili, dopo aver negato per tanto tempo al Leone i mezzi per crescere? Non dimentichiamo che Generali è l’unica tra le principali compagnie assicurative europee a non aver mai varato un solo aumento di capitale negli ultimi decenni, pur continuando a distribuire dividendi. Chi oggi parla di crescita dimenticando questo punto essenziale non può vantare una grande credibilità.
Ma di chi è allora la responsabilità della mancata ricapitalizzazione delle Generali? In primo luogo di Mediobanca, e non solo di Alberto Nagel, Ad dal 2007. L’istituto milanese è sempre stato il primo azionista delle Generali, ma – senza andare a ripescare gli scontri burrascosi tra Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi da un lato e Alfonso Desiata e Antoine Bernheim dall’altro – ha sempre posposto la crescita delle Generali al suo tornaconto, ai suoi interessi e, diciamolo pure, ai suoi giochi di potere. Sarebbe curioso sapere non solo perché Mediobanca si schierò a favore dell’Opa Telecom a debito (chissà che non c’entrassero le frizioni con la Fiat degli Agnelli), ma anche per quale motivo in precedenza aveva indotto le Generali a investire in un business del tutto estraneo come quello delle telecomunicazioni.
In altre parole, Mediobanca non è stata affatto un buon azionista di Generali, ma un freno al suo sviluppo, come testimonia il rifiuto di mettere a disposizione del Leone i mezzi che gli avrebbero permesso di crescere quando era più facile di adesso. Ma se nella storia delle Generali Mediobanca finisce sul banco degli imputati, nemmeno Caltagirone, pur avendo minori responsabilità, può essere assolto. L’imprenditore romano ha fatto parte del cda di Generali dal 2007, ma non risulta che si sia mai battuto per ricapitalizzare la compagnia triestina e, fino alla rottura sull’acquisizione di Cattolica nel 2020, i verbali di consiglio dicono che ha approvato tutti i piani strategici delle Generali, tutte le nomine e tutte le operazioni straordinarie, incluse alcune cessioni che non furono esattamente un affare per il Leone.
I vizi del passato di Mediobanca e di Caltagirone non inficiano ovviamente la credibilità personale di top manager del calibro di Donnet e di Costamagna ma possono frenarne l’azione e pongono una domanda ineludibile ai due principali azionisti delle Generali: volete far crescere le Generali? Ottima idea, ma potevate pensarci prima.