E’ durata lo spazio di un mattino la suggestione di una scalata di Delfin, la holding finanziaria della famiglia Del Vecchio, al tesoro delle Generali che ieri ha fatto volare i titoli del Leone in Borsa. In poche ore tre fatti hanno spazzato via ogni illusione anche se un dubbio resta. I fatti sono due precisazioni di Delfin, che venerdì è stata autorizzata dall’Ivass a salire oltre il 10% e fino al 20% in Generali, e il conto di quanto servirebbe a tentare una scalata.
Generali: le tre ragioni che fanno sfumare la scalata di Delfin
Vista la piega che la situazione stava prendendo e le illazioni su un’ipotetica scalata al Leone di Trieste, Francesco Milleri, l’Ad di Delfin, non amatissimo da una parte degli eredi della famiglia Del Vecchio e alle prese con i complessi problemi successori aperti dalla scomparsa di Leonardo, si è affrettato a precisare due cose: 1) la richiesta di Delfin a Ivass di salire oltre il 10% di Generali è solo l’effetto tecnico di un “involontario” superamento della soglia del 10% dovuto al riacquisto di azioni proprie del Leone; 2) sul futuro di Generali Delfin non ha alcuna strategia particolare. Dunque: discorso chiuso sulle suggestioni di scalata? Molto probabilmente sì, anche se un dubbio resta: perché Milleri ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione a salire in Generali quando gli sarebbe bastato vendere un piccolo pacchetto d’azioni per tornare sotto la soglia del 10%? L’ipotesi che circola è quella di una mossa dell’Ad di Delfin volta ad affermare la sua leadership davanti a un mercato che ancora non ne ha preso le esatte misure e che aspetta di conoscerlo meglio. Ma c’è un terzo punto che taglia la testa al toro: i costi di un’eventuale scalata a Generali che la famiglia Del Vecchio non sembra proprio intenzionata ad accollarsi considerando che acquistare un altro 10% di azioni del Leone significherebbe sborsare la bellezza di 2,8 miliardi di euro.
Mediobanca: il centrodestra cambierà le regole riaprendo i giochi in Piazzetta Cuccia?
Ma se la suggestione di una scalata a Generali può considerarsi già tramontata questo non vuol dire che la finanza italiana non sia alla vigilia di un’estate calda e che la nuova stagione politica dominata dal centrodestra non riservi sorprese normative, soprattutto sul versante di Mediobanca ma non solo. La sempre più frequente propensione a ricorrere al Golden Power di fronte ad attacchi veri o presunti alla sicurezza degli asset strategici italiani non è un segnale da sottovalutare ma, al contrario, l’espressione di una volontà di imbalsamare il capitalismo italiano anche a costo di allontanare gli investitori esteri. Ma, per tornare ai gioielli della finanza italiana, non è sfuggito a nessuno il nuovo attacco che, in un’audizione parlamentare dei giorni scorsi, l’imprenditore romano Francesco Gaetano Caltagirone, che mastica ancora amaro per la sonora sconfitta dell’anno scorso in Generali, ha sferrato alla legittimità della lista del cda uscente e al prestito titoli, a cui nell’assemblea del Leone fece ricorso Mediobanca. Se le posizioni di Caltagirone, che sembrano trovare orecchie attente nelle file del centrodestra, venissero recepite dalla Meloni e dalla maggioranza parlamentare che sostiene il suo Governo, i giochi in Mediobanca in vista dell’assemblea di ottobre si riaprirebbero subito e l’Ad Alberto Nagel e non potrebbe presentare la lista del cda per ricandidarsi alla guida di Piazzetta Cuccia. Fantafinanza? Sicuramente sì se a Palazzo Chigi ci fosse ancora Mario Draghi, ma il vento è cambiato e oggi nessuno potrebbe giurare che le regole della finanza non siano destinate a cambiare a favore dei grandi azionisti, che in Mediobanca stanno lavorando sottotraccia per mettere insieme il 40% circa del capitale, e contro l’autonomia del management. Sarebbe un segnale contro il mercato e un ritorno al Medioevo della finanza destinato a rendere la Borsa italiana a sempre più piccola. Ma i tempi sono quelli che sono.