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Generali e Ilva, due gioielli da difendere

La vendita della quota Unicredit in Mediobanca apre nuovi scenari ma occhio a Generali, un patrimonio che l’Italia non può perdere – Ancora più diffcile la battaglia sull’Ilva, che ha svelato l’inaffidabilità di ArcelorMittal ma ancor di più dei Cinque Stelle e l’ambiguità del premier Conte

Generali e Ilva, due gioielli da difendere

Se vent’anni fa Alessandro Profumo, allora Ad di Unicredit, avesse venduto sul mercato la quota azionaria detenuta nella Mediobanca di Enrico Cuccia, l’accusa di lesa maestà non gliela avrebbe risparmiata nessuno e ne sarebbe nato un dramma nazionale. Ma oggi Mediobanca, sempre meno banca d’investimento e sempre più banca di credito al consumo e di gestione dei patrimoni, non è più quella di una volta. Sono lontani i tempi in cui l’istituto milanese era la stanza di compensazione del capitalismo italiano e il crocevia dell’intero sistema finanziario.

Oggi la vendita al mercato di una partecipazione importante di Mediobanca, come quella dell’8,4% che l’Unicredit ha ceduto con un veloce blitz due giorni fa, è una scossa tellurica non priva di effetti sistemici indiretti ma non è il terremoto che sarebbe stato vent’anni fa. Mediobanca diventa più contendibile ma non è più da tempo un asset strategico del sistema. Quel che conta però è il destino della sua partecipazione del 13,4% nelle Generali, che ne fa tuttora il primo azionista della compagnia assicurativa: essa sì strategica, perché le Generali non sono solo un pezzo della storia d’Italia, ma un gruppo che ha in pancia una quota importante del debito pubblico nazionale e una materia prima finissima come il risparmio degli italiani.

Dopo aver promesso invano di ridurre la sua quota nel Leone, Mediobanca resta il primo socio della compagnia triestina, ma per fare che cosa? Dipenderà da chi saranno i soci di controllo di Piazzetta Cuccia e dipenderà molto da Leonardo Del Vecchio, che già ora è il primo azionista di Mediobanca e tra i più influenti nelle Generali. Qui non tocca allo Stato intervenire in difesa dell’italianità del Leone ma ai suoi azionisti, nella speranza che siano più lungimiranti di quanto siano stati in anni recenti, quando non hanno accordato al management della compagnia triestina un aumento di capitale che le avrebbe permesso di crescere e di meglio difendersi dai possibili assalti di altri gruppi assicurativi internazionali. Ora sembra che lo stesso Del Vecchio ipotizzi una ricapitalizzazione delle Generali e c’è da augurarsi che un’operazione straordinaria che rafforzi il patrimonio del Leone avvenga prima che sia troppo tardi, perché qui l’italianità del gruppo assicurativo merita di essere difesa.

Ma, oltre al futuro delle Generali, in queste ore si gioca la sorte di un altro asset strategico per l’Italia come è l’Ilva di Taranto, il più grande impianto siderurgico europeo, che dà lavoro a oltre 10 mila dipendenti (20 mila con l’indotto) e da solo vale l’1,4% del Pil. Qui la gestione è già straniera, essendo – almeno per ora – nelle mani del gruppo franco-indiano di ArcelorMittal, che, di fronte alla difficoltà congiunturali dell’acciaio, a una magistratura pugliese giustizialista e alle incognite normative determinate dalla irresponsabilità di un Governo zavorrato dai Cinque Stelle (che prima garantisce lo scudo penale, poi lo toglie e poi ci ripensa), minaccia di riconsegnare le chiavi dello stabilimento allo Stato italiano se non verranno riconosciuti almeno 5 mila esuberi.

L’Ilva di Taranto è un patrimonio non solo della città e della regione pugliese ma dell’Italia, per la sua capacità di rifornire di acciaio l’intero sistema manifatturiero nazionale, ma è finita sull’orlo del baratro perché si sta pericolosamente scherzando col fuoco. ArcelorMittal ha colpe molto gravi ma i voltafaccia del premier Conte, dei Cinque Stelle e in primo luogo di Luigi Di Maio sullo scudo penale – troppo timidamente contrastati dal Pd – sono imperdonabili, perché avvengono sulla pelle dei lavoratori e perché hanno offerto all’irresponsabilità dell’azienda un alibi incredibile.

È proprio da qui che bisogna ripartire. Prima di tutto occorre ripristinare lo scudo penale e poi serve una trattativa, dura quanto è necessario, per indurre ArcelorMittal a rispettare i contratti, senza mettere in campo illusorie scorciatoie come la nazionalizzazione o l’intervento della Cdp nell’Ilva. La demagogia ha già fatto troppi danni in questa storia e non è per questa via che si potrà salvare l’acciaieria di Taranto e recuperare la credibilità perduta davanti al mondo intero.

Si riuscirà alla fine a ritrovare il bandolo della matassa e ad evitare il tracollo della siderurgia italiana? Difficile fare previsioni ma non c’è dubbio che sull’Ilva come sulle Generali, due gioielli italiani da difendere gelosamente, si gioca per davvero un bel pezzo del futuro del Paese. Anche se molti non l’hanno ancora capito.

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