Il Parlamento tedesco si accinge a votare in questi giorni il più impegnativo intervento pubblico dai giorni della crisi bancaria del 2008/09 con un obiettivo esplicito: evitare una Lehman Brothers dell’energia. La prima mossa riguarderà il salvataggio di Uniper, uno dei maggiori importatori e distributori di gas d’Europa, messo in ginocchio dal taglio delle forniture da parte di Gazprom e dal contemporaneo aumento dei prezzi sul mercato libero che non possono essere scaricati sugli utenti finali sulla base degli attuali contratti.
Gas e petrolio: il salvataggio di Uniper rischia di non bastare
Grazie alla legge in via di approvazione (a tempi record), il governo potrà intervenire nel capitale di Uniper con un’iniezione di capitali nell’ordine di 9 miliardi di euro. Ma il sacrificio finanziario provocato dal taglio delle forniture attraverso il gasdotto Nord Stream rischia di non essere isolato. Ieri un tribunale russo ha ingiunto la sospensione per 30 giorni delle forniture di petrolio della Caspian Pipeline Consortium (CPC), la società che gestisce i flussi in arrivo dai giacimenti del Kazahkstan. Un provvedimento tecnico che permette a Putin di infliggere un altro colpo al sistema energetico europeo senza peraltro rinunciare a una sola goccia di greggio.
Peggio ancora, il prossimo 11 luglio la Russia chiuderà i rubinetti di Nordstream 1, il gasdotto che sbocca in Germania, per dieci giorni di manutenzione programmata. In passato questo era un non-evento, perché Gazprom deviava i flussi sulle pipeline ucraine. Oggi esiste il fondato motivo di temere che il riavvio del flusso potrebbe non accadere o essere ulteriormente soffocato da Mosca, magari con la motivazione che le sanzioni occidentali impediscono riparazioni vitali alle stazioni di pompaggio e ai compressori.
La Germania obbedisce a Putin, ma si attrezza per farne a meno
Insomma, Putin ha in mano le carte per ricattare l’Europa, a partire dalla Germania, il primo cliente del gas che in questi mesi è stato costretto a rimpinguare le casse di Mosca, cedendo anche al diktat di pagare le forniture, pur ridotte, in rubli. Berlino mastica amaro, ma non sta con le mani in mano: entro venerdì il Bundestag approverà un altro provvedimento per accelerare la produzione da fonti rinnovabili che, entro il 2030 dovranno fornire l’80% dell’energia. Intanto, si fa shopping di rigassificatori e, in barba agli scrupoli “verdi”, si riaprono gli impianti a carbone.
Il primo deficit commerciale da oltre 30 anni
Ma lo shock energetico ha comunque segnato la fine di un’epoca, politica ancor più che economica. E le conseguenze sono destinate a incidere sugli equilibri economici e finanziari della Ue, come ha già dimostrato la notizia, fino a pochi mesi fa meno credibile di un pesce d’aprile, del primo deficit commerciale tedesco da più di trent’anni, primo frutto avvelenato dell’aumento della bolletta energetica che alimenta l’inflazione.
La fine della BundesRepublik
Certo, la Germania non è la sola a subire le conseguenze del caro energia. Ma la potenza tedesca è senz’altro la prima vittima della fine della globalizzazione così come è maturata negli ultimi due decenni, quelli della leadership negli scambi della BundesRepublik, cresciuta grazie alla combinazione di almeno tre fattori: l’energia a basso prezzo, garantita dalla Russia, gli sbocchi commerciali ed industriali in pratica infiniti grazie alla partnership con la Cina, un’organizzazione industriale basata sull’eccellenza logistica che ha consentito la creazione di una rete di satelliti dell’industria tedesca si scala globale.
Questi tre fattori sono andati in crisi quasi in contemporanea, vanificando la rete di relazioni e accordi sviluppata da Angela Merkel e dal suo ex collega di governo, il socialdemocratico Gerhard Schroeder, già alla guida del gasdotto NorthStream 2, che avrebbe dovuto consentire al gas russo di arrivare in Germania via mare senza passare dai Paesi Baltici.
L’azione “concertata” in stile Germania
Insomma, una tempesta perfetta, destinata a produrre i suoi effetti in campi all’apparenza lontani, comprese le scelte di politica monetaria. A differenza che nel dopo Lehman Brothers, stavolta la soluzione non potrà limitarsi all’austerità monetaria.
Ma la Germania ha un asso nella manica: la capacità di dialogo, anzi di concertazione, tra le varie parti sociali. Berlino ha rispolverato uno strumento utilizzato in altre fasi difficili del secolo scorso, “l’azione concertata”. Di fatto un tavolo di lavoro che riunisce esponenti del governo, imprenditori, sindacati, economisti, docenti universitari e il governatore della Bundesbank per dibattere in maniera informale la situazione determinata dal caro prezzi e le possibili soluzioni per disinnescare la bomba sociale. Cambiano i protagonisti, ma la sostanza resta.
Il 21 giugno scorso il ministro dell’Industria, il verde Robert Habeck, si è rivolto così all’assemblea della Confindustria d’oltre Reno: “Quando sono entrato nel governo ho promosso un incontro con i capi azienda delle quotate nell’indice Dax. In quell’occasione uno dei manager più importanti mi ha detto che, se ci fossimo incontrati cinque anni prima, mi avrebbe chiesto di farmi i fatti miei, cioè di non intromettermi nella gestione delle imprese. Oggi, invece, il gioco è profondamente cambiato. Bisogna marciare assieme”. “Noi stiamo con voi”, gli ha risposto Martin Brudenmuller, ceo di Basf, cioè della maggior azienda chimica già impegnata nella trasformazione dei suoi enormi impianti. Non è un’alleanza di comodo, ma il frutto di un percorso virtuoso, iniziato nel Baden Wuttemberg, la terra di Porsche e Mercedes, dove il governo verde ha favorito in ogni modo l’avvio dell’auto elettrica.
Non è escluso, dunque, che il ricatto di Putin si traduca in un grande aiuto alla transizione dell’industria tedesca e, di riflesso, europea. Ma nel frattempo ci sarà da soffrire.