Ai tempi dell’apartheid la polizia del Sud Africa, un paese ricco di etnie spesso mescolate tra loro, aveva a disposizione una serie di test per stabilire la razza di una persona dalla carnagione chiara ma non sufficientemente pallida. Uno di questi consisteva nell’infilare un pettine tra i capelli. Se il pettine cadeva si era proclamati bianchi, se invece restava incastrato si veniva retrocessi tra i cittadini di seconda categoria. Dopo Martin Luther King e Malcom X l’America si è proclamata totalmente color-blind, ma la discriminazione positiva e il sistema delle quote costringono comunque a classificare le persone. La differenza rispetto al Sud Africa è che la collocazione etnica è lasciata alla libertà del soggetto. È il soggetto, ad esempio, a indicare nel modulo del censimento o quando fa domanda d’iscrizione all’università se è bianco, nero o qualsiasi altra cosa voglia essere.
Una delle differenze tra il moderno e il postmoderno sta proprio qui. Il primo, pur essendo animato da un intento emancipatorio, si muove in una logica in cui razza, popolo e genere sono ancora dati oggettivi e naturali. Il secondo lascia al soggetto la libertà di definirsi. Il moderno teorizza l’autodeterminazione dei popoli, che diventa con il Trattato di Versailles del 1919 il principio su cui si incardina il nuovo diritto internazionale. Chi sia popolo e chi non lo sia è determinato dalla storia. La storia, in quanto surrogato della natura, dà oggettività al concetto di nazione. Chi ha continuità di lingua, istituzioni e cultura dalla notte dei tempi (in pratica dal Medio Evo) ha diritto a sovranità e territorio, gli altri no.
Il referendum scozzese del 18 settembre è il primo a basarsi invece su un’idea postmoderna di popolo. È popolo qualsiasi insieme di persone che voglia definirsi tale. Si dirà che una base oggettiva per definirsi nazione in questo caso c’è, perché gli scozzesi sono celti e pronunciano la erre, mentre gli inglesi sono un incrocio di celti e germanico-vichinghi e non pronunciano la erre. Anche i francesi del sud, però, sono celti e non pronunciano i suoni nasali, mentre quelli del nord sono celto-germanico-vichinghi e nasalizzano tutto quello che possono. I francesi del sud, oltretutto, furono annessi per via dinastica o militare, senza essere mai stati consultati. La borghesia scozzese fu invece ben lieta di unirsi all’Inghilterra perché Londra la salvò dalla bancarotta che la Scozia si era autoinflitta con una dissennata operazione coloniale in America Centrale.
Qualunque sia il risultato del referendum, il solo fatto che si tenga crea un precedente di grande portata storica, perché da oggi qualsiasi gruppo di persone all’interno di una struttura statuale è legittimato a chiederne la disgregazione senza fare ricorso alla forza. Stratfor, un sito americano di intelligence e analisi strategica solitamente distaccato e blasé, sostiene che l’indipendenza scozzese avrà ripercussioni inimmaginabili sul sistema globale e in qualsiasi angolo del pianeta. Una volta stabilita la violabilità dei confini è come se si aprisse un vaso di Pandora. Dal canto suo Anatole Kaletsky, un autorevole commentatore sempre incline all’ottimismo, traccia un quadro cupo in caso di vittoria degli indipendentisti. Dimissioni immediate di Cameron (e, aggiungiamo, del capo dell’opposizione Miliband), nuovo governo laburista tutto tasse, recessione, crisi istituzionale per almeno due anni, uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea nel 2017.
Il voto del 18, la sera prima della risposta premi trimestrale su tutte le borse, potrebbe dunque essere un buon pretesto per la tradizionale correzione d’autunno. Tutte le banche centrali saranno impegnate a frenare il più possibile la volatilità, prima sui cambi, poi su tassi e borse. Non potranno, però, fare miracoli. In caso di vittoria degli unionisti, naturalmente, l’effetto sarà di segno opposto, ma in modo asimmetrico. Il rally di sollievo sarà infatti breve e modesto (tranne a Londra). Nel caso contrario la volatilità si prolungherà. Un’eventuale vittoria indipendentista darà qualche sostegno all’euro. Poiché nel paese dei ciechi l’orbo è re, l’Unione Europea apparirà improvvisamente come un baluardo di stabilità e forza. I capitali in uscita dalla Scozia si parcheggeranno inizialmente a Londra e poi proseguiranno per altre destinazioni, tra cui l’euro. La Spagna sarà attaccata dai mercati. L’indipendentismo catalano si è radicalizzato negli ultimi anni e il dialogo con Madrid è sempre più difficile.
L’aumento dello spread sulla Spagna coinvolgerà anche l’Italia, ma la Bce sarà pronta a contenere i danni. Dal vaso di Pandora (nel caso) uscirà di tutto, ma in tempi lunghi e imprevedibili. The Day After sarà concitato, anche perché accompagnato dalle dimissioni di tutta la prima linea politica inglese. Sembrerà per qualche attimo la fine del mondo, ma tutto continuerà a funzionare. La stessa indipendenza scozzese arriverà al più presto nel 2016 e probabilmente più tardi. I mercati, mai capaci di rimanere fissati su una cosa molto a lungo, troveranno presto qualcosa d’altro a cui pensare. I fondamentali torneranno comunque a farsi sentire. Al momento ce ne sono di positivi. La crescita europea dà di nuovo cenni di vita. Il petrolio è molto debole. L’Arabia Saudita ne sta spingendo la produzione in cambio del rinnovato impegno Americano in Iraq (l’Isis compete direttamente con Riyadh per la leadership del mondo sunnita e ambisce tra l’altro a rovesciare la monarchia saudita).
Il petrolio debole nel breve termine deprime il comparto dell’energia a Wall Street e fa scendere l’indice, ma nel medio periodo è un fattore molto positivo per auto, line aeree, consumi e per l’economia in generale (in particolare per l’Europa). La debolezza dei bond ha due cause. La prima, più fondata, è causata dai dati che confermano l’aumento del costo del lavoro. La seconda, che presto rientrerà, deriva da una nota della Fed di San Francisco in cui si constata che i mercati non prezzano ancora i tassi in rialzo previsti dai componenti del Fomc. In realtà i mercati hanno probabilmente ragione a non prendere molto sul serio le stime della Fed, che da quattro anni sono regolarmente sbagliate (troppo ottimiste sulla crescita, troppo pessimiste sui tassi).
Tornando alla Scozia, l’unico precedente recente è quello della separazione tra cechi e slovacchi nel 1993. Erano arrivati separati in Europa nel VII secolo, avevano vissuto vite separate e, paradossalmente, furono incollati insieme proprio da quel Trattato di Versailles che proclamava l’autodeterminazione dei popoli. Caduto il Muro, per la prima volta liberi per davvero, corsero a separarsi con entusiasmo. I cechi, più ricchi, non ne potevano più di finanziare gli slovacchi e questi non sopportavano più di sentirsi trattare da parenti poveri. La voglia di allontanarsi li indusse a una pratica di divorzio veloce, pacifica e corretta. Questa volta la Scozia esce (se esce) sbattendo la porta e l’Inghilterra subisce con animo pieno di stupore e di risentimento. La Scozia è però la patria di David Hume, il più grande filosofo dell’empirismo. Westminster e Edimburgo saranno alla fine più pragmatici di quanto oggi si immagini. E poi non è ancora detto che vincano i Sì.