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FUGNOLI (Kairos) – Le Banche centrali hanno paura: ecco i quattro sintomi della prossima crisi

Perché, con un tasso di disoccupazione praticamente dimezzato rispetto al 2009 e a pochi decimali dalla piena occupazione, la Fed appare sempre più aggressiva ed espansiva? Perché la Bce, con il pieno impiego in Germania e sotto lo sguardo severo dell’opinione pubblica tedesca, prepara per la fine anno il Quantitative easing, una misura che non ha mai voluto adottare negli anni scorsi? Non è l’ombra della crisi scorsa a fare perdere il sonno ai policy maker, ma quella della prossima. 

Qui non vogliamo analizzare quanto sia giusta o sbagliata questa paura e nemmeno ci interessa più di tanto capire se le azioni di policy che ne stanno seguendo e che continueranno a seguirne nei prossimi anni siano la risposta più corretta. Vogliamo solo calarci nella loro testa e provare a capire che cosa vedono i loro occhi e cosa pensano, di conseguenza, le loro teste. 

Oggi i mercati guardano se stessi, si compiacciono e si scambiano congratulazioni. I governi, dal canto loro, hanno fretta di dichiarare chiusa per sempre la crisi e diffondono ottimismo. I banchieri centrali, nella loro solitudine, vedono invece la possibilità di una crisi ancora più devastante di quella del 2008-2009.

Quali sono le difese immunitarie compromesse che i policy maker ritengono di vedere e che i mercati hanno invece dimenticato? Sono la demografia, la produttività deludente, l’altissimo livello di indebitamento e la scarsa inflazione. 

Se l’Arabia Saudita non avesse il petrolio sarebbe un paese poverissimo. Se gli Stati Uniti non avessero il boom del gas e del petrolio non convenzionali, questa benedizione capitata proprio negli anni immediatamente successivi al 2008, la loro crescita, già adesso più debole rispetto agli anni precedenti la crisi, sarebbe ancora più bassa e due milioni di posti di lavoro (destinati a diventare tre entro la fine del decennio) mancherebbero all’appello. 

Il boom energetico ha avuto la grazia di capitare, mese più mese meno, nel momento in cui la popolazione dei Baby Boomers ha cominciato ad avviarsi verso la pensione e a fare deteriorare rapidamente il profilo demografico del mercato del lavoro da una parte e i conti previdenziali e sanitari dall’altra.

All’amministrazione Obama va dato atto di avere messo da parte gli scrupoli ambientalisti (dirottati sulla lotta al carbone, estratto in stati repubblicani) e di avere abbracciato il salvagente che cadeva dal cielo. Se si fosse scelto diversamente, all’europea, avremmo un prezzo mondiale del petrolio di 10-20 dollari più alto e un’economia americana incapace di trainare la tiepida accelerazione globale in corso. 

Quanto alla produttività, il balzo è stato grande, nel 2009-2010, quando le imprese hanno imparato a produrre quello che producevano prima della  crisi con milioni di occupati in meno. Una volta stabilizzata la situazione, però, la produttività, non essendo nutrita da investimenti, è scesa verso zero.

La bassa crescita ha indotto una generazione di giovani a stare più a lungo presso I genitori, a rinviare la formazione di una famiglia, l’acquisto di una casa propria e ha quindi ridotto a sua volta la crescita demografica, colpita anche su un fronte ulteriore, quello dell’immigrazione. Più vecchi, meno figli e meno immigrati, tre situazioni destinate a permanere nel prossimo decennio, hanno indotto alcuni economisti a tagliare drasticamente la crescita potenziale del Pil americano. 

Il terzo cavaliere dell’Apocalisse è il livello d’indebitamento, globalmente aumentato del 30% rispetto a prima della crisi e in forte crescita proprio nei punti deboli del sistema. Ci accorgiamo poco della cosa perché i tassi a zero hanno reso il servizio del debito molto leggero, ma la vulnerabilità rispetto all’eventualità di tassi reali in aumento è massima, globale e sistemica. 

L’inflazione bassa è il quarto grande incubo di molti policy maker, perché aumenta i tassi reali e non sgonfia lo stock di debito esistente. L’inflazione bassa costringe poi le banche centrali a tenere i tassi nominali a zero e rende impossibile abbassarli ulteriormente in caso di ricaduta. 

Visto in questo modo, quindi, il mondo che entrerà nella prossima crisi avrà meno produttività, meno crescita, molto più debito (questa volta anche nei paesi emergenti, anche se si tratta di debito privato) e meno inflazione che nel 2007. I banchieri centrali, dal canto loro, avranno molto meno spazio per tagliare i tassi. 

Una volta indossati questi occhiali, molte cose diventano chiare. Le banche centrali vogliono, fortissimamente vogliono, più inflazione. Vogliono anche che questa inflazione cresca più velocemente dei tassi, in modo da rendere i tassi reali sempre più negativi. 

Se il mercato accetterà docilmente livelli crescenti di repressione finanziaria bene, altrimenti si procederà d’autorità. A livello europeo sono allo studio misure di azzeramento temporaneo delle cedole sui titoli pubblici mentre la Fed  discute l’introduzione di una tassa di uscita per chi vorrà vendere fondi in momenti di crisi di mercato. 

Non va visto solo il lato negativo di questo assetto mentale dei policy maker. Il lato positivo è il mantenimento di politiche monetarie che, con la caduta dei tassi reali che l’inflazione renderà possibile, saranno sempre più espansive. La speranza è che i linfociti riprendano a salire, che i figli grandi escano di casa e generino dei nipoti, che le imprese con i macchinari ormai usurati si decidano finalmente a investire. Pazienza se ci sarà una bolla delle borse (a condizione che non sia così grande da generare troppa volatilità). E pazienza se i detentori di reddito fisso subiranno una repressione finanziaria più dura. 

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