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FUGNOLI (Kairos) – Alzare i tassi sarà inevitabile, ma la Fed teme di rompere l’incantesimo in Borsa

Primo avvertimento. Il presidente della Fed di Dallas Fisher dichiara che i tassi dovrebbero iniziare a salire già nel primo trimestre 2015 e che la borsa è cara in quasi tutti i modi la si voglia misurare. Fisher è il leader dei repubblicani nel Fomc, è il più politico e il più abile tra gli oppositori alla linea egemone delle colombe. La sua discesa in campo segna la fine della tregua in seno al Fomc. 

Il cessate il fuoco era in vigore dalla fine del 2013, quando il compromesso sul tapering (contemporaneo al compromesso fiscale tra repubblicani e democratici e tra legislativo ed esecutivo) aveva soddisfatto sia i falchi (che volevano la fine del Quantitative easing) sia le colombe (che volevano gestirne la fine con la massima gradualità possibile). Era poi seguito, nei primi mesi di quest’anno, un periodo di bassa inflazione e di caduta della crescita durante il quale i repubblicani del Fomc se ne erano stati allineati e coperti. Ora Fisher rompe la tregua rumorosamente proprio nel giorno in cui la Yellen testimonia davanti al Congresso e a poca distanza dalle preoccupazioni sull’inflazione espresse da Bullard (il tecnico del gruppo). 

Secondo avvertimento. Carl Icahn, l’investitore attivista che non sbaglia mai una mossa e individua con occhio esperto società grandi e piccole che hanno dentro di sé valore inespresso, afferma che trovare opportunità è sempre più difficile e che è arrivato il momento di essere cauti sulla borsa. Warren Buffett, dal canto suo, preferisce non esporsi, ma è significativo che da qualche tempo non compri più niente di importante. Buffett non vende mai nulla e non comprare è il suo modo di essere bearish. 

Terzo avvertimento. Cresce il numero di gestori di successo che si dicono preoccupati per la linea della Fed e per il continuo rialzo degli asset finanziari. Tra questi Stanley Druckenmiller, ex gestore di Soros. Ancora più curioso il caso di permabull come James Paulsen che, forse per la prima volta in vita loro, si dicono sconcertati dal rialzo. Di fronte a questa offensiva, pericolosa per adesso solo a livello di opinione ma in grado di avere effetti reali in un futuro prossimo, le colombe della Fed reagiscono prendendo tempo, invocando le debolezze rimaste nell’economia e mostrandosi attente a quello che succede sui mercati. 

Il Fomc che si trasforma in equity strategist e nota la sopravvalutazione dei social network e di certe zone del biotech e la Yellen che afferma di tenere d’occhio con una certa apprensione le obbligazioni ad alto rendimento sono il modo con cui le colombe vogliono dimostrare che hanno in pugno la situazione anche nei dettagli e che le bolle sono limitate a settori circoscritti. C’è qualcosa di molto difensivo in questo modo di porsi. È lo stesso atteggiamento che porta le colombe a raccogliersi dietro il vessillo del macroprudenziale, l’ultima difesa prima dell’aumento dei tassi. 

Macroprudenziale significa, al di là del nome, microchirurgia. Alzare i tassi per fare scendere le quotazioni di borsa di Facebook, dicono i suoi vessilliferi, è come amputare una gamba per un’unghia incarnita. Nel suo attacco frontale Fisher demolisce però anche il macroprudenziale. È come la linea Maginot, dice, l’imponente linea di difesa che doveva rendere invulnerabile la Francia e che i tedeschi aggirarono facilmente passando per il Belgio. Asportata una bolla, insomma, se le condizioni di fondo rimangono ultraespansive se ne forma immediatamente una nuova da un’altra parte. 

Distiamo quindi solo un altro dato forte sull’occupazione o sull’inflazione dal momento in cui il dibattito diventerà incandescente. La condizione di  invincibilità in cui i mercati vivono da un paio d’anni, quella per cui se l’economia va bene la borsa sale e se va male sale lo stesso perché arriva subito la cavalleria delle banche centrali, rischia di trasformarsi nel suo opposto. Con quotazioni così alte possono diventare indifendibili tanto una crescita debole (dove è finita, diremmo tutti, l’accelerazione che ci avevate promesso?) quanto una crescita davvero in accelerazione (che ci facciamo, ci chiederemmo, con i bond a questi livelli?). 

La situazione attuale non è insomma tenibile a lungo a meno che l’inflazione non offra una tregua. Basterebbe anche un solo mese con un piccolo rallentamento (probabile dopo la discesa del greggio di questi giorni) per fare dire alle colombe che si è montato un caso inesistente su un falso allarme. In realtà le colombe vogliono più inflazione, ma sanno che la dose va aumentata senza strappi se non si vuole spaventare il paziente. Si avvicina in ogni caso il momento di una correzione. La buona notizia è che, in mancanza di cedimenti strutturali che potrebbero venire solo dall’Europa o dalla Cina e che però non sembrano un rischio nel breve, la correzione dovrebbe essere superficiale, soprattutto se dovuta a troppa (e non a troppo poca) crescita. 

Parliamo del resto tutti i giorni di bolla ma, almeno sull’azionario, lo scenario non è così grave. Se diamo per buone le valutazioni di fine 2013 i rialzi di quest’anno sono così modesti che una piccola correzione li azzererebbe senza fatica. Tokyo è sotto del 6 per cento, Londra è in pari, Francoforte è sopra del 3 e solo l’SP 500, tra i grandi mercati, è in rialzo del 7. Percepiamo rialzi senza fine perché tutti i settori, a rotazione, hanno le loro due settimane di gloria e fanno segnare nuovi massimi. Finita la sfilata i premiati si ritirano, tornano nell’ombra (scendono) e lasciano i riflettori al vincitore del giorno. Adesso è il momento della tecnologia vintage, i personal computer, ma per lasciarle spazio altri settori, che pure vanno bene, scendono, in modo da non fare salire troppo l’indice generale. 

In questo modo la patologia del mercato rimane tutto sommato contenuta e si manifesta in modo più grave solo nelle aree effettivamente indicate dalla Fed. Anche i più ottimisti, nell’ipotizzare i possibili ulteriori rialzi da qui a fine anno, non vanno oltre il 5 per cento. Dopo che la borsa è triplicata dal 2009 a  oggi non è la ciliegina del 5 per cento che farà necessariamente crollare tutto. La condizione è che l’Europa, che non ha cambiato di una virgola il suo modello, non torni ad afflosciarsi e che l’America non confermi i sospetti sulla mancata accelerazione. Molti gestori si sono ormai rassegnati a questo lentissimo rialzo e alla perfetta tenuta dei bond di ogni ordine e grado. Non capiscono del tutto ma si adeguano. Hanno risultati giornalieri, mensili e trimestrali da esibire e non possono rimanere indietro cercando rifugio troppo a lungo nel cash. 

Si sono però ripromessi, parecchi di loro, di vendere quando la Fed cambierà politica. Quel giorno, però, potrà succedere che un temporale provochi l’interruzione delle linee telefoniche, che la batteria del cellulare sia scarica, che siamo in volo transoceanico, che ci sia venuta l’appendicite o, semplicemente, che le linee del broker cui passare l’ordine di vendita siano tutte occupate perché migliaia di altri gestori, in tutto il mondo, staranno avendo la stessa idea. Sono sette anni che non vediamo un rialzo dei tassi. I più giovani non ne hanno mai visto uno nella loro vita lavorativa. Ci ripetiamo che sono un fatto della vita, che non c’è da avere paura e che le borse possono continuare a salire lo stesso. Chi sembra però avere più paura di tutti sono proprio le banche centrali e questo non è molto tranquillizzante. Vendere una parte del portafoglio, in queste condizioni, e riportarlo su un livello neutrale o moderatamente sottopesato equivale all’alzarsi da tavola con ancora un po’ di appetito. Lo raccomandano tutti i dietologi.

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