Rai e Mediaset, con cinque multiplex a testa, dovranno pagare allo Stato un contributo di 13 milioni l’anno ciascuno, molto meno di quanto pagano adesso, come pure Telecom Italia Media e Gruppo L’Espresso. Urbano Cairo, proprietario de La7, non pagherà niente per vent’anni. Tra i piccoli, se sono solo operatori tv non vengono tassati, se invece possiedono frequenze, pagheranno per l’uso di un bene pubblico che fino a ieri era gratuito. Da parte sua lo Stato si svincola dal rischio di impresa che condivideva con gli editori: se gli affari pubblicitari andavano bene l’erario incassava, sennò no.
Le nuove regole sui contributi delle frequenze televisive che l’Agcom, l’autorità garante nelle comunicazioni, ha appena varato stanno mettendo subbuglio tra i protagonisti. E ridisegnano completamente il mercato tv. Chi grida al favoritismo, chi implora uno sconto, chi prevede la crescita di un grande fratello a due teste, Rai e Mediaset. Mentre il rumore polemico cresce, conviene fare un po’ di chiarezza.
Intanto, le nuove regole spostano l’onere della tassa dai fornitori di contenuti – e quindi gli “editori” – agli operatori di rete. Secondo, spostano la tassa dal valore del fatturato aziendale al “valore” delle frequenze.
Sul primo punto, lo scenario è cambiato totalmente con la rivoluzione del digitale terrestre. Fino all’avvento del digitale le due attività – editore e operatore di rete – erano cumulate nello stesso soggetto, poiché per essere imprenditori televisivi occorreva avere le frequenze, conquistate le quali si otteneva una specie di “abilitazione a editore tv”. Con il passaggio dall’analogico al digitale, i ruoli si sono sdoppiati, fermo restando che alcuni soggetti come per esempio Rai, Mediaset, la7 hanno un’azienda in cui integrano entrambi. Altri, come Sky con il canale Cielo, o Discovery channel, o i canali Disney, invece, sono solo editori, ospitati su canali altrui a cui pagano un ticket.
L’Agcom ha regolato l’onere economico per chi ha appunto le frequenze: i cosiddetti multiplex (perché possono ospitare fino a sei canali ciascuno). Solleva invece da qualsiasi tassa l’attività editoriale, che fino a ieri doveva pagare allo Stato il “pizzo” dell’uno per cento del fatturato (sostanzialmente introiti della pubblicità e sponsorizzazioni). Un sistema che ha mostrato i suoi limiti negli ultimi anni. Mentre nel 2011 l’un percento del fatturato tv produceva 50 milioni di contributi, più o meno 28 di Rai e 25 di Mediaset, già nel 2012 la crisi lo aveva fatto precipitare a 35 milioni e altrettanti sono stati incassati nel 2013.
Per cambiare, il punto di partenza è stato stabilire quale fosse il valore delle frequenze. Facile: la legge prevedeva che si prendesse come benchmark l’ultima asta, cioè quella che l’anno scorso ha assegnato a Cairo il suo spazio digitale. Un’asta con un unico concorrente e nessun beauty contest (cioè una gara reale), per decisione del governo di allora, a guida Monti e con ministro competente Corrado Passera. Il risultato è stato un vero affare per Cairo, che si è portato via il bottino per 31 milioni che, udite udite, includono anche i canoni per vent’anni di utilizzo. Quindi La7 oggi sta zitta, perché per lei con le decisioni dell’Agcom non cambia proprio nulla.
L’effetto Cairo comunque è stato quello di tenere basso il valore-base delle frequenze per tutti. E per questo gli operatori dovrebbero essergli grati. Da Cairo in poi, un multiplex con sei canali vale 2 milioni e 360 mila euro. Per tradurlo in contributo, l’Agcom ci ha messo un po’. C’è da capirla, perché si è trovata a dover costruire un algoritmo in grado di rispondere a due requisiti. Innanzitutto non ridurre l’incasso per lo Stato, poi cancellare distorsioni del mercato come l’accaparramento di frequenze che non vengono di fatto utilizzate per farci televisione, visto che questo finora non aveva alcun costo.
Risultato? Una serie di parametri che modulano il valore delle frequenze in relazione, per esempio, a quante se ne posseggono (il valore-base si incrementa del 5 per cento per il secondo multiplex, del 10 per il terzo, del 15 per il quarto e del 20 per il quinto); sconti fino al 30 per cento per chi fa sperimentazioni di nuove tecnologie (difficile immaginare che le ammiraglie Rai e Mediaset non le facciano); un meccanismo di gradualità nell’applicazione piena della nuova tassa (erano cinque anni, ora si pensa ad allungare a un massimo di 8 anni). I vantaggi di questo insieme di “interruttori” verranno comunque dimezzati per i big di viale Mazzini e di Cologno. Quanto al La7, resta sempre esclusa e blindata dal suo vecchio accordo fatto al momento del passaggio a Cairo.
Ora la palla passa nel campo del ministero dello Sviluppo Economico. Sarà lì, in base a criteri politico-finanziari, che si deciderà come utilizzare le leve messe a punto dall’Agcom. Far pagare tutto subito o diluire nel tempo? Concedere gli sconti, o arrivare il più velocemente possibile alla cifra prevista a regime, cioè 55 milioni l’anno? Per le 20 reti nazionali più quelle locali, ora si apre la partita delle lobby. Se ce la faranno a ottenere un decollo soft o se vincerà l’erario, si vedrà subito, perché la nuova tassa deve partire ora, entro il 2014.