Kafka ovunque. Penso che non si esageri dicendo che Franz Kafka, con Orwell e pochi altri, possa trovare posto nel ristretto novero degli scrittori più amati, più citati e più influenti del Novecento.
Hanna Arendt lo stima il più grande scrittore dello scorso secolo.
Su TikTok l’hashtag #kafka ha totalizzato oltre un miliardo e mezzo di visualizzazioni. Gli adolescenti si scambiano brani e citazioni tratte dalle lettere scritte a Milena del tipo: “Amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”. Parole potenti e vere.
L’universalità di Kafka è sbalorditiva. Lo stesso Kafka, che voleva vedere distrutti tutti i suoi scritti pubblicando pochissimo in vita, sarebbe rimasto interdetto da questa celebrità.
Il rapper coreano Kim Nam-Joon, frontman del famosissimo gruppo BTS, consiglia ai suoi fan di leggere La metamorfosi.
Esiste un adattamento manga dei racconti di Kafka da parte dei fratelli giapponesi Nishioka Kyodai.
In una intervista del 2023 lo scrittore e traduttore hindi Ashutosh Bharadwaj ha spiegato perché Kafka appartenga a tutti, ovunque e contemporaneamente. Si riferisce al praghese come a uno “scrittore di identità multiple, contraddittorie e sconcertanti”.
Le lettere a Milena
Per ricordare il centenario della scomparsa di Kafka, avvenuta il 3 giugno 1924, abbiamo chiesto a Claudia Sonino, nota germanista, un contributo inedito sullo scrittore praghese.
Claudia Sonino ha curato insieme a Guido Massimo una importante edizione critica di uno dei testi più affascinanti di Franz Kafka, le Lettere a Milena in una nuova traduzione di Isabella Bellingacci. È un libro di 440 pagine pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Giuntina di Firenze.
Finalmente nella nostra lingua, possiamo adesso disporre di una edizione integrale delle Lettere a Milena. La ricerca e il lavoro critico di Guido Massimo e Claudia Sonino ha messo in evidenza le connessioni e le fonti che l’hanno alimentate e ispirate. Fonti che danno conto dell’ampiezza delle letture di Kafka e del suo eclettismo che spazia tra differenti culture e tradizioni di pensiero e spirituali.
Data l’estensione del contributo di Claudia Sonino, che ringraziamo, abbiamo pensato di offrirlo ai nostri lettori in due parti. La prima di seguito, la seconda la prossima domenica.
Buona lettura.
Il cibo nel mondo di Kafka (Claudia Sonino)
Prima parte
Fame e ascesi
In un appunto dei diari del 1922 Kafka paragona se stesso a un animale affamato «se la via porta all’alimento commestibile, all’aria respirabile, alla vita libera, sia essa pure dietro alla vita».
Kafka parla spesso di cibo, il che non è certo strano, si parla di cibo, infatti, in molte opere della letteratura. Ciò che appare singolare è piuttosto il fatto che Kafka parli di cibo per sottolineare una posizione di marginalità, di estraneità, di diversità personale o di altri soggetti e individui.
Altri autori parlano spesso del cibo come momento di festa, di condivisione, in cui una comunità, attraverso il rituale consumo, del cibo, riconosce e rafforza se stessa, in cui l’individuo, attraverso il pasto condiviso, si integra in una coralità e si radica nella vita.
Diverso è il caso di Kafka e dei suoi personaggi, uomini che sembrano provenire dal nulla, senza comunità, senza appartenenza, senza passato e senza futuro, per i quali il normale istinto di cibarsi appare potentemente represso o addirittura scomparso, e per i quali il cibo si inserisce in un complicato sistema di valori simbolici, intellettuali e spirituali, affettivi, è piuttosto qualcosa che si cerca ma non si trova, qualcosa– che è addirittura «dietro alla vita».
L’appetito
Nel Digiunatore, racconto scritto nel 1922, il protagonista è condannato, come egli svelerà alla fine, ad avere fame. La sua ascesi, la sua arte del digiuno in realtà è un inganno, la verità è che egli era costretto a digiunare «perché non trovavo il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato – mormora in punto di morte – non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri».
I testi di Kafka sono popolati da figure come queste, bestie affamate in una vana ricerca, a caccia di un cibo che si possa mangiare. Gregor Samsa nella Metamorfosi aspira a un cibo che non è quello degli altri uomini ma di cui egli si nutrirebbe e senza il quale è condannato ad avere fame.
Altre figure di diversi, di emarginati sono contraddistinte dalla mancanza di appetito, laddove il cibo si conferma come un problema, come un elemento di separazione anziché di condivisione. Così Karl Rossmann, il giovinetto protagonista di America, abbandonato a se stesso, non mangia il salame che la madre gli ha dato per il lungo viaggio in mare, e quando giunto a destinazione si trova a tavola con Pollunder e Green, uomini imponenti e massicci la cui corpulenza e statura significano forza e vitalità, ma anche successo e integrazione sociali, la cena gli si rivela un supplizio.
«Il signor Green stava squartando un piccione con grandi colpi di coltello…e si portò alla bocca un grosso pezzo di carne che, come Karl potè scorgere per caso, fu afferrato e tirato dentro dalla lingua. Questo spettacolo gli fece venire la nausea».
Le abitudini alimentari di Kafka e il vegetarianismo
Altre figure di Kafka conducono, spinte da una necessità interiore, una vita ascetica. Digiunando si alienano dagli altri, i mangiatori, acquisiscono distanza e assumono la posizione di spettatori critici. Sembrano alla ricerca di qualcosa che, come è detto nei diari del 22, è forse «dietro alla vita».
Si è spesso cercato di identificare questi digiunatori volontari e involontari con lo stesso Kafka. Il rapporto complesso e complicato che Kafka nutriva nei confronti del cibo è molto ben documentato.
Sceglieva il cibo con accuratezza, evitava determinati cibi, diventò vegetariano – già minato dalla tubercolosi arrivò ad elogiare l’alto valore nutritivo di mezzo limone – e dava importanza a un modo di mangiare molto consapevole e riflessivo, che a suo avviso giovava alla salute.
Sperimentò per esempio il «Fletchern», un metodo di masticare messo a punto dall’americano Horace Fletcher che imponeva di masticare a lungo e con cura ogni boccone spezzettandolo con tutti i denti prima di mandarlo giù. Gli era d’altronde ben chiaro che con queste abitudini alimentari si confinava nel ruolo dello stravagante, e con molta ironia in una lettera a Felice Bauer, la fidanzata mai sposata, racconta come il padre si mettesse un giornale davanti al viso pur di non vederlo mangiare.
Che la sua difficoltà nei confronti del cibo, quello mangiato da tutti, fosse evidente lo testimoniano i ricordi dei suoi contemporanei che hanno dato luogo a una vera e propria aneddotica.
Quando lavorava a Praga all’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, si nutriva di pane, latte e yogurt, mentre gli altri si facevano arrivare i succulenti piatti della cucina boema. Una cameriera del suo tempo raccontò del «dolce della salute» di cui Kafka amava nutrirsi.
L’interesse verso questo aspetto della vita di Kafka è certo dovuto al desiderio, e alla necessità, di meglio decifrare gli enigmi della sua opera. Alcuni critici hanno visto in questo rapporto col cibo una sorta di autopunizione, facendolo risalire a disturbi psicopatologici.
Altri l’hanno piuttosto interpretato come una forma secolarizzata di Kashrut, ossia una secolarizzazione della dietetica e prescrittiva ebraica nei confronti del cibo. Altri ancora sottolineano gli aspetti psicosomatici – lo stress dell’ufficio come la causa dei suoi soventi mali di stomaco.
Kafka ha esplicitamente e implicitamente messo in rapporto il rifiuto di certi cibi con la sua famiglia. «Mio nonno paterno era macellaio» racconta in una lettera a Milena «non è che per questo io debba mangiare tanta carne quanta egli ne ha macellata».
Lo stare a tavola in famiglia
Ma è nella Lettera al padre in cui Kafka rimanda al comportamento del padre tavola per fargli presente il suo modo tirannico di comportarsi coi figli e le conseguenze che ciò ha avuto su di lui. Le regole che Hermann Kafka dettava valevano per tutti tranne che per lui: «Quando, bambino, mi trovavo con Te, specialmente durante i pasti, mi istruivi soprattutto sul modo di comportarsi a tavola. Quello che compariva sulla mensa doveva essere mangiato, non era permesso parlare della bontà dei cibi – Tu però li trovavi sovente immangiabili e li chiamavi “buoni per le bestie”…Mentre Tu, grazie al Tuo gagliardo appetito e al Tuo amore per la rapidità, mangiavi tutto bollente e a grossi bocconi, il bambino doveva affrettarsi; e intanto sulla tavola incombeva un tetro silenzio interrotto da ammonimenti, “Prima mangia, parlerai dopo”; “più presto, più presto!” oppure: “guarda, io ho già finito da un pezzo”. Non era permesso rosicchiare le ossa, ma Tu lo facevi. L’aceto non si doveva assaggiare, ma a Te era consentito. La cosa più importante era di tagliare il pane diritto; ma che poi Tu lo facessi con un coltello sporco di sugo era indifferente. Bisognava badare di non lasciar cadere briciole sul pavimento, ma sotto la Tua sedia ce n’era un’infinità. A tavola si doveva badare solo a nutrirsi, Tu invece Ti tagliavi e Ti pulivi le unghie, temperavi matite, Ti frugavi nelle orecchie con uno stuzzicadenti…Io vivevo sempre nella vergogna…sia che mi ribellassi…sia che non mi fosse possibile obbedirTi perché non avevo, mettiamo, né la Tua forza né il Tuo appetito…».
Digiunare condizione per scrivere
Kafka rivela così come in casa gli fosse mancato quell’approccio al cibo quale bisogno fondamentale, tanto esteticoquanto biologico e affettivo, che nella famiglia si esprime in genere attraverso una disciplina che è anche iniziazione, apprendimento della vita.
A tavola con il padre non c’è socializzazione del cibo, convivio, assimilazione attraverso le pietanze di affetti, costruzione nel cibo gustato assieme di futuri ricordi positivi, legati a questa o quella ricorrenza, a una festa, o all’abitudine. A tavola sembra vigere il sorvegliare e punire, per lo meno nei ricordi del figlio.
Non si sbaglia certo nel mettere in relazione la tendenza a non mangiare di Kafka con la sua protesta nei confronti del padre e il suo modo di essere, il suo essere borghese sazio. Nella scala di valori di Hermann – che si era fatto dal nulla – il possesso materiale occupava un posto molto alto mentre tutto ciò che era spirituale veniva guardato con diffidenza.
Sminuzzare verdure anziché mangiare con appetito l’arrosto di maiale era un atto dimostrativo, si era diversi, si era migliori di lui.
Al primitivo e quasi animalesco èlan vital del padre, Kafka contrapponeva un altro impulso o istinto: più volte affermerà che il suo interesse, tutto il suo interesse andava alle cose spirituali, alla letteratura. E in un passo dei Diari confesserà di essere dimagrito in tutte le altre direzioni.
Il non mangiare era dunque per Kafka un presupposto per poter scrivere, così come lo era l’astinenza sessuale. «Ho bisogno di una camera, di una pensione vegetariana, per il resto quasi di nulla», scriveva, e rivolgendosi a Milena nel 1920, paragonava il robusto e imponente scrittore Franz Werfel a un capitalista dello spazio vitale.
Fine prima parte
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Claudia Sonino ha insegnato letteratura tedesca a Trieste, Milano e Pavia. Ha trascorso periodi di ricerca e insegnamento in Austria, Germania e Israele. Per Mondadori ha pubblicato Esilio, diaspora, terra promessa. Ebrei tedeschi verso Est (1998), tradotto in tedesco con il titolo Exil, Diaspora, Gelobtes Land?, Jüdischer Verlag 2002) e L’asimmetria del cuore (2006). Per Guerini e Associati ha pubblicato nel 2015 Tra sogno e realtà ebrei tedeschi in Palestina (1920-1948), tradotto in inglese con il titolo German Jews in Palestine, 1920–1948: Between Dream and Reality, Lexington Books, 2016. Nel 2019 per l’editore Giuntina ha curato insieme a Guido Massimo l’edizione critica delle Lettere a Milena di Franz Kafka.
Al suo attivo ha molte altre pubblicazioni.