La Francia ricorre alla linea dura. La tanto discussa riforma del lavoro sta per diventare legge, ma solo grazie a un colpo di mano del governo che ha deciso di avvalersi del cosiddetto “49.3”, un articolo della Costituzione che prevede, in casi eccezionali, che il testo non venga sottoposto al voto del Parlamento, sotto la responsabilità del presidente del Consiglio (salvo una mozione di sfiducia che i parlamentari devono presentare entro 24 ore). Una scelta dettata dall’assenza di una maggioranza in parlamento e dal fallimento delle trattative con i sindacati. Manuel Valls ha così deciso per la terza volta in questa legislatura di ricorrere a questa sorta di decreto legislativo per approvare il Jobs Act alla francese, che da mesi sta scatenando scontri in piazza e accese polemiche anche all’interno della stessa maggioranza oltre che dalla sinistra non di governo e dall’opposizione.
L’obiettivo della riforma è di contrastare il livello record della disoccupazione, rendendo più flessibile il mercato del lavoro. Forse troppo, secondo i sindacati e i giovani, che ravvisano troppi elementi di precarizzazione. Nei giorni scorsi, il premier social-liberale aveva lasciato intendere di essere pronto a tutto pur di garantire il passaggio della legge El Khomri, dal nome della giovane ministra del Lavoro a cui è stata affidata tra mille polemiche. Oggi si assiste alla “negazione della democrazia”, protesta a caldo il socialista Laurent Baumel. “Un triste simbolo, l’ammissione di un fallimento”, rincara Aurélie Filippetti, l’ex ministra della Cultura di origini italiane, che si dimise dall’esecutivo in nome dei valori della gauche.
Si annunciano ora nuove proteste, tant’è vero che sette sindacati (Cgt, Fo, Fsu, Solidaires, Unef, Fidl, Unl) hanno indetto per giovedì 12 maggio una quinta giornata di mobilitazione e proteste. Sulla legge sono state presentate 5.000 proposte di emendamento, oltre 2.400 delle quali dal Front de gauche, la sinistra di opposizione che sta conducendo una battaglia nelle piazze da ormai due mesi, insieme con studenti, sindacati, e i militanti del movimento Nuit Debout, gli Indignados transalpini che da fine marzo occupano Place de la République invocando non solo lo stop alla legge ma in generale “un mondo migliore”.
I PUNTI PIU’ CONTESTATI
Ma quali sono gli aspetti più contestati della riforma? Innanzitutto, il totem delle “35 ore” di lavoro settimanali, che i lavoratori di mezza Europa invidiano alla Francia e che furono volute nel 2000 dall’allora premier Lionel Jospin per distribuire meglio il lavoro tra la popolazione, e in questo modo crearne altro. La missione non è stata del tutto compiuta, anzi, ma i francesi ritengono questa norma intoccabile. Formalmente, il regime resterà questo anche con la riforma ma con la possibilità, tramite accordi imprese-sindacati, di stabilire ore supplementari che però secondo i contestatori potrebbero essere sottopagate: l’attuale legge prevede che le prime 8 ore in più siano pagate al 25%, dalla nona in poi al 50%. Con la nuova legge le ore in più potrebbero essere pagate al 10% rispetto all’ora di lavoro “normale”. Ma soprattutto, le ore aggiuntive settimanali possono arrivare a un totale di 60 dalle attuali 48 (anche se solo in “circostanze eccezionali”), e quelle giornaliere passare da 10 a 12. Non solo: le aziende con meno di 50 dipendenti possono proporre al singolo impiegato di derogare alle 35 ore anche senza accordi collettivi. A rischio anche il diritto delle 11 ore di riposo consecutive, anche se su questo punto il governo ha accettato di fare modifiche.
Altro tema è quello dei licenziamenti: la legge El Khomri amplia il ventaglio delle cause di licenziamento senza reintegro del lavoratore indicando le ragioni economiche di un calo degli ordini o delle vendite per diversi trimestri consecutivi e perdite di produttività per diversi mesi, ma anche modifiche dell’attività dal punto di vista tecnologico o della semplice riorganizzazione aziendale. Come accaduto in Italia, l’intento è quello di ridurre al minimo la discrezionalità dei giudici e di rendere meno oneroso possibile il licenziamento. Si parla di “licenziamento economico” ma anche di “accordi offensivi”, secondo i quali un’azienda può modificare orari e condizioni di lavoro del dipendente (ma non il salario mensile): saranno possibili solo se firmati da sindacati che rappresentino almeno il 50% della forza lavoro della società. A quel punto, se il lavoratore dovesse rifiutare l’accordo, potrà essere licenziato per giusta causa.
C’era poi la questione della tassazione dei contratti a tempo determinato (cosiddetti CDD) sulla quale, dopo le pressioni ricevute dalle imprese, il governo ha fatto marcia indietro: la ratio della norma era la lotta al precariato rendendo maggiore il costo dei contratti brevi. “Una pugnalata”, l’avevano definita gli imprenditori, sostenendo che un contratto a termine “fa parte dell’attività e risponde a esigenze stagionali o di sostituzioni”. Il Medef, la Confindustria francese, ha chiesto espressamente di ritirare questa norma, preferendo che fosse rimandata alla negoziazione con le parti sociali. Su questo punto insistono molto i sindacati e soprattutto i giovani, che gridano al rischio precariato. Per quanto riguarda i giovani, la legge prevede tuttavia, quanto meno sulla carta, di estendere a tutto il territorio nazionale il progetto di “Garanzia giovani”, che consente ai ragazzi tra i 18 e i 25 anni di essere inseriti nel mondo del lavoro attraverso un contributo pubblico mensile. Prima era necessario l’esame di fronte a una commissione, nel prossimo futuro basterà compilare un modulo avendo i requisiti richiesti.