L’Istat ha confermato una significativa crescita del Pil dell’Italia nel secondo trimestre dell’anno, con un notevole +17,3% rispetto al 2020. Andamenti molto positivi che fanno ben sperare anche in possibili miglioramenti dei principali indicatori di finanza pubblica “schiacciati” da quasi due anni di pandemia. A breve, il prossimo 24 settembre, sarà presentato l’annuale Rapporto di Previsione redatto da Prometeia, report che dal 1974 contiene le analisi e le previsioni del contesto macroeconomico globale e italiano. Con Lorenzo Forni, Segretario Generale di Prometeia Associazione e professore di Economia politica all’Università di Padova, in passato in forza al dipartimento affari fiscali del Fondo Monetario e prima ancora in Bankitalia, anticipiamo le osservazioni sullo stato dei conti italiani. «Sono evidenti i dati positivi del secondo trimestre, migliorano Pil, consumi e occupazione. Ha sorpreso il +2.7% sul trimestre precedente. Valuteremo nei prossimi mesi quanto il rimbalzo del secondo trimestre abbia di fatto anticipato spese e consumi che ci attendevamo per la seconda parte dell’anno. Le variabili importanti della finanza pubblica danno comunque segnali di fiducia: mercato del lavoro, consumi, gettito Iva».
Un 2021 moderatamente migliore delle aspettative anche per i nostri conti pubblici?
«È plausibile pensare che si possa migliorare il disavanzo dell’11.8% che era stato preventivato. I dati sul fabbisogno di cassa nei primi mesi dell’anno fanno supporre che possa anche andare sotto all’11%. Anche la stima del Def sul debito/Pil al 159.8% potrebbe essere migliorata».
La pandemia ha influito pesantemente sull’aumento dello stock di debito. Quali percentuali ci mantengono in un binario di sostenibilità finanziaria nel medio periodo?
«Non ci sono in realtà soglie prestabilite, anche un rapporto debito/pil al 160% è sostenibile se la macchina dell’economia italiana mantiene la capacità di ripagare gli interessi sul debito. Paradossalmente oggi paghiamo meno interessi sul debito di qualche anno fa. Quest’anno dovremmo essere al 3.2% di quota del Pil che destiniamo per il servizio del debito. Rimane il fatto che uno stock di debito elevato come quello italiano deve essere maneggiato con cura».
Ciclicamente i mercati ritornano a mettere il nostro debito sovrano nel mirino. Adesso viviamo in una sorta di luna di miele, ma non è pensabile che duri per sempre.
«Nel 2020 e nel 2021 la Bce ha praticamente anestetizzato la situazione. Con il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) ha acquistato tutte le nostre nuove emissioni, oltre 170 miliardi nel 2020 e un ammontare quasi equivalente alla fine dell’anno in corso. In questi due anni il Tesoro italiano non si è confrontato con il mercato. Le riduzioni di acquisti da parte di Bce e dell’Eurosistema prima o dopo riporteranno i Btp sul mercato in una situazione tutta da verificare».
È innegabile che la figura di Mario Draghi contribuisca a stabilizzare, grazie al suo prestigio internazionale, la posizione dell’Italia sui mercati globali. Fino a quando potremo fruire di questa rendita di posizione?
«Il principale rischio sul debito italiano non è a mio avviso collegato a valutazioni sui fondamentali di finanza pubblica. I problemi che ha incontrato il nostro debito nel recente passato erano determinati da messaggi poco ortodossi che alcune forze politiche comunicavano ai mercati e alla comunità internazionale. Prese di posizione sulla moneta unica o su altre questioni vitali per la sostenibilità dei nostri conti pubblici hanno effetti immediati sui mercati. Il rischio politico è sempre presente, il prossimo appuntamento che ci aspetta non è molto lontano, sono le elezioni nel 2023».
Altri alert da tenere monitorati per la nostra finanza pubblica?
«L’Italia per gestire i fondi del Pnrr sta cambiando una parte importante della propria macchina amministrativa e della struttura produttiva. Il progetto è partito bene ma l’Italia non deve commettere errori sui prossimi passi intermedi, dalla predisposizione dei progetti al controllo degli step dell’erogazione dei fondi. Se i mercati dovessero vedere l’Italia meno “committed” (impegnata) nel corretto utilizzo dei fondi potrebbero nascere problemi. Perdere il treno della ripartenza con il Pnrr significa ritornare ad un’economia stagnante come prima del 2019, con un aggravio ulteriore sul fronte della sostenibilità del debito. Per non parlare del rischio politico di incrinare i rapporti con gli altri membri dell’Unione».
Il premier ha evocato nei mesi scorsi il “debito buono”. Si può quantificare nel medio termine l’impatto dell’utilizzo dei fondi Pnrr sulla finanza pubblica?
«L’impatto è difficile da valutare perché il Pnrr si congiunge alla riforma della giustizia, della pubblica amministrazione e del fisco. In ogni caso, alla fine del 2026 il Pil italiano potrebbe essere più alto di circa 3% rispetto alla baseline. La crescita media annua potrebbe aggirarsi su un +2% annuo. Per quanto riguarda disavanzo e debito le stime delineano un moderato peggioramento, nonostante i progetti del Pnrr per due terzi circa vengano finanziati con maggiore debito, in un quadro in cui gli investimenti dovrebbero rendere più produttiva e dinamica la nostra economia. È questo il concetto di debito “buono” a cui fa riferimento il premier Draghi».
L’inflazione sta ritornando, in Europa e negli Stati Uniti, un argomento di primo interesse nell’agenda delle autorità monetarie. Una ripresa collegata ad un trend inflazionistico crescente cosa può comportare?
«Gli Stati Uniti hanno introdotto stimoli fiscali e monetari più intensi rispetto all’Unione Europea. Soprattutto in Europa, e in Italia, mi sembra che questa fase di aumento inflazionistico sia transitoria. In generale, questo trend di aumento appare più collegato ad alcuni “colli di bottiglia” sui mercati dei materiali e ad alcuni mismatch tra domanda e offerta in particolari segmenti del mercato del lavoro. I problemi si porranno se questa tendenza, perdurando nel tempo, andrà a incardinarsi nelle aspettative future degli operatori finanziari e dei mercati. Credo possiamo immaginarci un mondo prossimo venturo in cui un’inflazione tra il 2 e il 4% non sia in grado di provocare scossoni e danni particolari all’economia».
Scenari avversi su questo campo?
«Mi sembrano al momento limitati. I banchieri centrali sono molto preoccupati che l’inflazione possa scappare di mano e hanno gli strumenti per controllarla. Ciò non toglie che si possano immaginare scenari in cui non vogliano o non possano farlo».