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Fondi sovrani: la deglobalizzazione li spinge al reshoring ma l’Italia può fare di più. Parla l’economista Bortolotti da Abu Dhabi

FIRSTonline

I fondi sovrani, che sono investitori istituzionali molto diversi tra loro ma con un patrimonio ricchissimo di una decina di trilioni di dollari che può ulteriormente ingigantirsi per effetto dei prezzi petroliferi ingigantirsi, non smettono di investire anche nel 2022 malgrado le incertezze dello scenario mondiale dovute alla guerra e alla crisi energetica. Quest’anno hanno già investito 35,4 miliardi di dollari, soprattutto nelle infrastrutture, ma stanno cambiando identità: per molte ragioni ma soprattutto per effetto della deglobalizzazione che li spinge ad investire più di prima in casa propria. E’ il cosiddetto “reshoring sovrano”. Ma questo non vuol dire che non siano più disposti ad indirizzare la loro potenza di fuoco (10 trilioni di dollari!) anche all’estero e anche in Italia se il nostro Paese riuscisse a diventare più attrattivo, magari attraverso la creazione di una Italian Sovereign Investment Authority. Sono le riflessioni del professor Bernardo Bortolotti, uno dei maggiori studiosi italiani di fondi sovrani, economista in aspettativa dell’Università di Torino e attualmente Direttore esecutivo del Transition Investment Lab della New York University di Abu Dhabi oltre che Direttore del Sovereign Investment Lab della Bocconi. Ecco che cosa ha dichiarato a FIRSTonline.

Professor Bortolotti, Lei scruta e analizza lo stato e le strategie dei Fondi sovrani da decenni ed è conosciuto nella comunità scientifica come uno dei maggiori esperti della materia: di fronte a una situazione di grande incertezza economica, finanziaria e geopolitica mondiale come quella attuale, come si stanno regolando i Fondi sovrani? Investono as usual, riducono gli investimenti in attesa di tempi migliori o selezionano più di prima i settori e i Paesi nei quali investire?

«Innanzitutto, è utile una precisazione. I fondi sovrani sono un gruppo eterogeneo di investitori istituzionali che opera con mandati e fonti di finanziamento molto diversi. Nella stessa categoria ritroviamo infatti fondi intergenerazionali di risparmio, fondi di stabilizzazione anticliclica e fondi strategici, che possono essere finanziati dai proventi degli idrocarburi, dagli avanzi commerciali dei paesi esportatori o direttamente dai governi attraverso la cessione di partecipazioni o cespiti di altra natura. A questo aggiungiamo che nascono in contesti economici e istituzionali fondamentalmente diversi, per cui ritroviamo insieme – per rimanere nei best in class – il fondo sovrano norvegese che fa della trasparenza una sua ragione d’essere e Abu Dhabi Investment Authority, i cui assets sono un segreto di Stato gelosamente custodito… Nonostante le grandi differenze, i fondi sovrani sono tutti veicoli di investimento completamente partecipati e controllati dallo stato, con i rischi e le opportunità che questa governance comporta ed è quindi giusto considerarli con i dovuti distinguo nel loro complesso.

Su questo sfondo, vengo alla sua domanda sulle strategie dei fondi nel contesto attuale segnato dalle violente crisi che stiamo vivendo. Lo scoppio della pandemia ha messo brutalmente davanti agli occhi dei fondi sovrani la necessità di fare fronte alle esigenze di liquidità dei loro governi per fronteggiare la crisi attraverso salvataggi o interventi di sostegno all’economia. Nel 2020 i fondi hanno liquidato oltre 200 miliardi di dollari (circa il 3% degli attivi in gestione), di cui oltre 50 destinati al grande bailout del trasporto aereo nazionale. Non bisogna dimenticare però che alcuni fondi, tra cui il PIF saudita e Mubadala di Abu Dhabi, hanno scommesso sul rimbalzo dei mercati e sono entrati pesantemente nella Borsa americana con operazioni con un controvalore complessivo di oltre 20 miliardi di dollari. Al di là delle cifre, la pandemia ha segnato una “crisi di identità” del settore. Concepiti come casseforti di puro equity per preservare nel tempo la ricchezza finanziaria delle nazioni, con il COVID-19 i fondi sovrani hanno scoperto di avere passività implicite nelle richieste – peraltro legittime – che i governi avanzano momenti di crisi. Su questa mutata percezione si innestano le problematiche del rallentamento della globalizzazione e dei flussi internazionali di capitale, le molte facce economiche e finanziarie della crisi geopolitica che stiamo vivendo. Le strategie dei fondi sovrani ovviamente risentono di questo radicale cambiamento di scenario».

È vero che c’è una sorta di reshoring dei Fondi sovrani, nel senso che tendono a investire di più nei loro Paesi di origine rispetto ad altre aree del mondo?

«I dati confermano questa tendenza in modo inequivocabile. Nel 2020-2021, la percentuale di operazioni domestiche sfiorano il 20%, ed è quasi raddoppiata rispetto agli anni precedenti la pandemia. I salvataggi di cui abbiamo parlato in precedenza spiegano in parte questo trend che in realtà ha ragioni più profonde. Come è noto i fondi sovrani sono un’importante contropartita finanziaria della globalizzazione. All’espansione del commercio mondiale è corrisposto un accresciuto movimento internazionale dei capitali che ha portato all’accumulazione di riserve valutarie delle banche centrali dei Paesi esportatori che operavano in regimi di cambi fissi. Le monarchie del Golfo assieme agli altri Paesi emergenti – Cina in testa – hanno quindi creato i fondi sovrani per aumentare i rendimenti attraverso la diversificazione dei loro portafogli in valuta, investendoli in tutte le possibili asset class. Nel corso degli ultimi 20 anni, i fondi sovrani hanno perseguito tutte le possibili strategie di diversificazione del rischio e grazie alle buone performance dei mercati il loro patrimonio gestito è cresciuto ben otto volte, fino a raggiungere recentemente i 7 trilioni di dollari. Nell’arco di un lustro, lo scenario globale economico e geopolitico è però cambiato radicalmente e i fondi si ritrovano ad affrontare nuovi, inusitati vincoli nelle scelte di portafoglio. La politica ritorna – possiamo dire – “sovrana” e alcuni Paesi target risultano meno accessibili, anche perché nel frattempo la regolazione degli investimenti diretti esteri in molte giurisdizioni è diventata più restrittiva. La guerra fa esplodere il tema delle sanzioni che colpiscono gli attivi delle istituzioni pubbliche, creando nuove classi di rischio politico nell’investimento internazionale delle riserve in valuta. Il nuovo “equilibrio” derivante da questa torsione dello scenario macro e geopolitico è quindi caratterizzato non a caso da un significativo declino dell’investimento internazionale e quindi da un incremento delle operazioni domestiche, che ovviamente non sono influenzate da questi rischi di natura politica. Potremmo in effetti chiamarlo “reshoring sovrano”, in quanto riconducibile al grande tema attuale della deglobalizzazione». 

Nel primo semestre del 2022 quanto hanno investito globalmente i Fondi sovrani e dove?

«Nell’anno in corso il controvalore delle operazioni realizzate globalmente dai fondi è di 35.4 miliardi di dollari. Se si confronta questo dato con i 68 miliardi di dollari complessivamente investiti nel 2021, possiamo concludere che nonostante lo scoppio della guerra in Ucraina e la crisi energetica l’attività risulta nella media. Il settore preferito nel semestre è stato quello delle infrastrutture. Il Public Investment Fund saudita – che punta a un portafoglio di $600 miliardi nel 2025 – è stato il più attivo, e ha colto i recenti ribassi sul mercato americano come occasione per investire oltre 7 miliardi di dollari nel settore digitale (Amazon e Meta) e della finanza (BlackRock). Ma in un anno così complesso, il secondo semestre potrebbe riservarci delle sorprese».

Quanti sono attualmente i Fondi sovrani nel mondo e a quanto ammonta il loro patrimonio? Quali sono i primi cinque?

«I fondi sovrani in attività nel mondo sono 169, con un patrimonio stimato di circa 10 trilioni di dollari. La classifica per controvalore del patrimonio è ballerina perché risente della volatilità degli asset sottostanti. I fondi più liquidi con quote elevate del portafoglio investite sui mercati sono oggi penalizzati rispetto a quelli più orientati al private equity. Al momento attuale, nella top five troviamo China Investment Corporation (1300 miliardi), il fondo novergese Government Pension Fund Global (1.200 miliardi), Abu Dhabi Investment Authority (829 miliardi), Kuwait Investment Authority (769 miliardi), Government Investment Corporation di Singapore (690 miliardi)».

La tempesta energetica che investe l’Europa dopo la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina e dopo il rallentamento delle forniture di Gazprom all’Occidente che peso ha nelle strategie di investimento dei Fondi sovrani che in molti casi originano da Paesi produttori di gas e soprattutto di petrolio?

«La crisi che stiamo vivendo oggi sta determinando una colossale redistribuzione di risorse a favore dei Paesi produttori di petrolio. Secondo le stime del FMI, nel 2022 la rendita aggiuntiva derivante dalla vendita di idrocarburi dei Paesi produttori vale 250 miliardi di dollari. Possiamo realisticamente assumere che i prezzi rimarranno altri e proiettare una cifra simile anche per i prossimi 2-3 anni vista la elevata rigidità della domanda e dell’offerta nel mercato dell’energia. Si tratta di manna dal cielo che confluirà in buona parte nelle casse dei fondi sovrani e che quindi potranno aumentare sensibilmente la loro potenza di fuoco. Stimiamo che nell’arco di qualche anno le disponibilità complessive dei fondi commodity (oil and gas) si aggireranno sui 7 trilioni, con un incremento di quasi il 20 per cento rispetto al periodo pre-crisi. Come investiranno questa nuova ricchezza? La mia previsione – basata in parte su dati degli ultimi anni – è che i fondi sovrani continueranno a investire massicciamente nella transizione energetica, senza abbandonare completamente le fonti convenzionali, confermando il trend che per ogni dollaro speso nell’oil&gas, ne vengono investiti 4 nelle rinnovabili. Ovviamente il ritmo di questa transizione non sarà accelerato come quelli previsti – sulla carta – dall’European Green Deal. Nei paesi produttori ogni passo verso le rinnovabili genera stranded assets nel sottosuolo e gravi ripercussioni sociali in economie ancora fortemente dipendenti dal petrolio. Ma la direzione di marcia è ormai stabilita e i fondi sovrani ritengono inevitabile e opportuna l’uscita dal fossile. Nell’arco di questa transizione già intrapresa, i fondi sovrani punteranno alla diversificazione delle loro economie, attraverso investimenti strategici in settori che consentano dove possibile la sostituzione delle importazioni (si pensi ad esempio all’agricoltura) e lo sviluppo di nuovi settori industriali ancorate alle proprie fonti di vantaggio comparato».

Nei radar dei Fondi sovrani che posto occupa l’Italia e che cosa s’aspettano dalle prossime elezioni del 25 settembre per decidere se, quanto e come investire nel nostro Paese?

«Nella classifica per paesi target degli investimenti sovrani l’Italia è 18 esima. I dati certificano quindi un fatto noto: l’Italia non è attrattiva per gli investimenti diretti esteri e in particolare dei fondi sovrani. Siamo dietro tutti i principali partner europei, Francia, Germania, Spagna addirittura l’Olanda hanno fatto meglio di noi negli ultimi 20 anni. Con l’eccezione dei grandi investimenti immobiliari del Qatar Investment Authority, la presenza di fondi sovrani nel capitale delle aziende italiane è marginale, complice la piccola dimensione che non consente operazioni di scala adeguata per i loro portafogli, ma soprattutto l’incertezza politica e delle regole che spiazza soprattutto la disponibilità a investire nelle infrastrutture o in progetti di lungo termine. Ed è un’occasione persa perché i fondi sovrani sarebbero disposti a investire in Italia a certe condizioni. Ad esempio, c’era interesse da parte di alcuni fondi verso il PNRR, ma non sono stati studiati meccanismi di coinvestimento che avrebbero moltiplicato la scala e quindi i benefici economici e sociali del piano. Oggi piu’ che mai i fondi seguono attentamente le evoluzioni politiche e il caso italiano non fa eccezione. Dopo le elezioni, valuteranno attentamente la postura internazionale del paese e la futura stabilità del governo. Il governo Draghi aveva contribuito a quella credibilità internazionale che è prerequisito per attrarre investimenti. Continuità politica in questa direzione non potrà che convincere i fondi sovrani a riprendere gli investimenti verso il nostro paese».

Qual è la cosa più importante che l’Italia potrebbe fare per attrarre maggiori investimenti dei Fondi sovrani?

«L’Italia deve dotarsi degli strumenti più sofisticati del capitalismo di stato, tra cui un vero e proprio fondo sovrano. Vale oggi in Italia la battuta di Kissinger: “Se devo telefonare al fondo sovrano italiano chi chiamo? Cdp, Cdp Equity, Patrimonio destinato o il Fondo Strategico Italiano?”. Scherzi a parte, servirebbe oggi come non mai una nuova istituzione, pienamente legittimata ai massimi vertici istituzionali, finanziata dalle principali istituzioni finanziarie pubbliche (MEF, Banca d’Italia e CdP), politicamente responsabile, ma indipendente nella sfera gestionale e operativa. L’istituzione dell’Italian Sovereign Invetment Authority potrebbe rappresentare un valido strumento per fronteggiare la prossima crisi del sistema produttivo italiano, nonché favorire il percorso di profonda trasformazione strutturale di cui necessita il nostro paese per recuperare competitività e aumentare il potenziale di crescita. Il nuovo fondo sarebbe anche quel one-stop shop che ancora ci manca e che consentirebbe di realizzare investimenti strategici in partnership con gli altri fondi sovrani internazionali. Per restare in Europa, BpiFrance, Cofides in Spagna e UK Office for Investment sono possibili modelli possibili di riferimento».

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