Tanti finanziamenti, pochi investimenti e il rischio di rimandare a Bruxelles i fondi inutilizzati. E’ il paradosso tutto italiano della scarsa capacità di mettere a frutto i fondi strutturali europei. Un vizio collaudato da tempo, che con questi chiari di luna per la finanza pubblica assume il sapore della beffa, tanto da indurre lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a sussurare ai microfoni in occasione di un convegno ” non sempre è colpa dell’Europa”.
Un copione, al quale non sfugge nemmeno l’agricoltura, il cui capitolo, nonostante le sforbiciate dell’ultimo decennio, pesa ancora per circa il 30% del bilancio comunitario.
Secondo le ultime rilevazioni, aggiornate al primo semestre di quest’anno, giro di boa dell’attuale programmazione settennale, l’asticella della spesa rendicontata a Bruxelles per finanziare gli investimenti nelle aziende agricole italiane nell’ambito del Feasr (Fondo europeo per lo sviluppo rurale) si colloca al di sotto del 14%. In soldoni, sommando tutta la spesa pubblica comunitaria e il cofinanziamento nazionale si ferma a 780 milioni, su un budget dell’intera programmazione pari a 5,7 miliardi di euro.
Ben altro tiraggio hanno le misure di natura ambientale, come i contributi erogati sotto forma di indennizzi per le zone con vincoli naturali, con un utilizzo di quasi la metà dei fondi a disposizione; bene anche l’agricoltura biologica, settore ormai di largo consumo interno e volano emergente anche dell’export, che alla stessa data ha già impegnato il 37% del suo budget di aiuti.
Quello ambientale è diventato anche per l’agricoltura un passaggio obbligato per realizzare un modello di sviluppo sostenibile, e la buona risposta degli agricoltori a “coltivare ecologia” è sicuramente un fatto positivo. Ma da solo non basta a raggiungere il traguardo finale, cioè arrivare sul mercato, se non si coniuga con l’altro perno del sistema, vale a dire la sostenibilità economica che solo un sistema di imprese più competitivo è in grado di garantire.
Un doppio binario imboccato da tempo dalla tanto criticata Politica agricola comune (uno dei principali bersagli del rosario antieuropeista di Salvini) che da oltre un decennio ha affiancato al primo pilastro, fatto di incentivi automatici agli agricoltori in base agli ettari, il secondo pilastro per lo sviluppo rurale, con un corposo pacchetto di finanziamenti per innovare e potenziare le aziende agricole.
“Basta regalare pesci, meglio una canna e insegna a pescare” era lo slogan che in qualche modo salutò la grande svolta con cui Bruxelles decise di bilanciare il sistema dei prezzi garantiti, con misure strutturali mirate a finanziare i piani di investimento delle aziende agricole, soprattutto nelle aree rurali più svantaggiate.
Per ora i dati dimostrano che le cose non sono andate proprio in questa direzione, di certo non nella misura auspicata. Gli incentivi automatici, stampella salva-redditi degli agricoltori, continuano così a fare la parte del leone, compreso il paradosso – che nemmeno le ultime riforme comunitarie sono riuscite a scalfire – del cosiddetto “disaccoppiamento”: in pratica l’Unione europea continua a elargire questi sussidi anche ai produttori che scelgono di non produrre; per incassare il premio basta tenere un po’ in ordine i campi e la rendita è garantita.
Al contrario, per attingere ai fondi per gli investimenti c’è bisogno di un’idea, poi di un progetto, poi la capacità di portarlo a termine e gestirlo. In una parola, fare il salto da agricoltore a imprenditore agricolo. Forse è proprio questa poco diffusa cultura di impresa (insieme alla complessità delle pratiche amministrative che sommano il carico burocratico di Bruxelles, ministero delle Politiche agricole e Regioni) il vero freno a un utilizzo più ampio dei fondi strutturali, che rischiano di tornare nelle casse di Bruxelles per essere redistribuiti agli altri partner comunitari.