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FOCUS BNL – Sempre meno investimenti nella spesa pubblica italiana

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Una correzione dei conti ben equilibrata 

Si discute molto in questo periodo sull’opportunità di dare alle regole europee che disciplinano le finanze pubbliche degli stati membri un’applicazione più orientata alla crescita, senza perdere di vista la stabilità. Nel nostro Paese l’attenzione rimane, inoltre, correttamente concentrata sull’esigenza di riorganizzare il bilancio delle Amministrazioni pubbliche, con particolare interesse alle uscite. Sono molti gli aspetti riguardanti la gestione e la composizione dei conti pubblici che possono influenzare lo sviluppo di un’economia. Alcune indicazioni utili emergono ripercorrendo quanto accaduto negli ultimi anni. 

Nel 2009, il bilancio pubblico italiano aveva registrato un disavanzo superiore agli 80 miliardi di euro, quasi il doppio dell’anno precedente. In termini di Pil, si era passati dal 2,7% al 5,5%, il valore più alto dal 1996. Il saldo primario, che non considera gli interessi sul debito e quindi fornisce una più accurata rappresentazione del reale equilibrio dei conti, era tornato ad essere negativo per la prima volta dal 1990. Essendo prevalentemente il frutto della recessione, il peggioramento aveva interessato le   finanze pubbliche di tutte le principali economie europee, risultando in alcuni casi molto più intenso di quanto registrato in Italia. 

La correzione dei conti pubblici nelle principali economie europee

Nonostante il perdurare della crisi, gli anni successivi sono stati caratterizzati da una profonda attenzione al riequilibrio dei conti, anche a causa delle forti tensioni manifestatesi sul mercato dei titoli del debito pubblico. In Italia, il saldo primario è passato da un deficit pari allo 0,8% del Pil nel 2009 ad un surplus del 2,2% nel 2013. Una correzione di 3 punti percentuali in quattro anni risulta meno profonda di quella realizzata nello stesso periodo dall’Irlanda, dalla Spagna e dal Portogallo, sostanzialmente uguale a quella della Francia, leggermente più ampia di quella della Germania. Nel valutare gli effetti che una correzione dei conti pubblici produce sull’economia di un paese l’ampiezza della manovra non è, però, l’unico elemento da considerare. Quello che rileva è soprattutto la composizione delle misure, con la suddivisione tra entrate e uscite.

Generalmente, una riduzione delle spese, con una particolare attenzione al contenimento degli sprechi, produce effetti migliori per l’economia di quelli ottenuti da un semplice aumento delle entrate. Nel complesso dei quattro anni considerati, la manovra italiana appare ben equilibrata, anche nel confronto con gli altri paesi. Il 60% dei 3 punti di correzione è stato, infatti, ottenuto da una riduzione dell’incidenza delle spese al netto degli interessi sul Pil. Meglio ha fatto solo l’Irlanda, con oltre l’80%, ma soprattutto la Germania.

I conti pubblici tedeschi hanno visto una correzione del rapporto tra saldo primario e Pil di 2,6 punti percentuali, risultato di un calo di oltre 3 punti del rapporto tra uscite al netto degli interessi e Pil e una contemporanea riduzione dell’incidenza delle entrate. Situazione opposta in Francia: la correzione di 3 punti è il frutto di un aumento delle entrate sul Pil di 3,6 punti parzialmente assorbito da una crescita di mezzo punto del peso delle uscite.

Come risultato di questi quattro anni, i tedeschi hanno potuto beneficiare di una riduzione della pressione fiscale (dal 40,6% del Pil al 40,2%), mentre gli italiani hanno subito un aumento (dal 43% al 43,8%), che è, comunque, risultato molto meno ampio di quello che ha colpito i francesi (dal 44,2% al 48%). 

Focalizzando l’attenzione sul nostro Paese emerge, però, una prima particolarità. Gli ultimi quattro anni possono essere suddivisi in due periodi. Dal 2009 al 2011, il rapporto tra il saldo primario e il Pil è migliorato di 2 punti percentuali, come risultato di una riduzione del peso delle uscite al netto degli interessi sul Pil di 2,4 punti a fronte di un calo di quello delle entrate di poco inferiore al mezzo punto, con la pressione fiscale scesa dal 43% al 42,5%.

Negli ultimi due anni, la correzione di un punto di Pil è, invece, esclusivamente il risultato di un’azione sulle entrate, che ha più che compensato un aumento dell’incidenza delle uscite. Ovviamente, nel confronto tra questi due periodi occorre ricordare come il primo (2010-2011) sia stato interessato da una crescita, sebbene moderata, dell’economia, mentre il secondo (2012-2013) abbia visto una nuova ampia recessione. Le manovre approvate per riequilibrare i conti pubblici hanno avuto ovviamente effetti negativi sull’economia italiana, rendendo la seconda recessione ancora più profonda di quanto altrimenti sarebbe stata. Nel Bollettino economico di gennaio 2013, la Banca d’Italia stimava per il 2012 e il 2013 in circa 1 punto percentuale la minore crescita derivante dalle manovre approvate dal Governo.

È, però, opportuno andare a vedere come la manovra sulle entrate, ma soprattutto quella sulle uscite, sia stata distribuita tra le diverse voci del bilancio. È, infatti, importante verificare se gli effetti negativi sulla crescita possano essere limitati ad un impatto di breve periodo o se, al contrario, debbano essere temuti effetti strutturali sulle potenzialità di sviluppo del Paese.  

Più imposte e meno contributi nelle entrate delle Amministrazioni pubbliche

Quasi tutti i principali paesi dell’area euro hanno utilizzato la manovra sulle entrate come misura per riequilibrare i conti pubblici, sebbene con intensità differente. La Germania è l’unico ad aver ridotto negli ultimi quattro anni il rapporto tra le entrate totali e il Pil, dal 45,2% nel 2009 al 44,7% nel 2013.

In Italia, si è passati dal 46,5% al 47,7%, un aumento che nel confronto con le altre economie europee risulta poco significativo. 1,2 punti percentuali rappresentano, infatti, un incremento molto meno ampio di quello realizzato dai paesi che si sono trovati in situazioni di particolare difficoltà, come ad esempio la Grecia (+7,5 punti percentuali) e il Portogallo (+4,1), ma è anche pari a circa un terzo di quello francese (+3,6) e meno della metà di quello spagnolo (+2,7).  

Una visione d’insieme a livello europeo di come l’azione sulle entrate sia stata distribuita tra le principali voci di bilancio mostra come nelle maggiori economie dell’area euro abbia prevalso un orientamento verso l’aumento del peso delle imposte dirette a fronte di una leggera riduzione di quello delle imposte indirette e di un sensibile calo dell’incidenza dei contributi sociali.
Ovviamente, tra i singoli paesi vi sono differenze e particolarità, che meritano di essere sottolineate. La Francia ha aumentato significativamente il peso delle entrate sul Pil, agendo prevalentemente sulle imposte dirette, sebbene il paese continui a caratterizzarsi nel confronto con le altre economie europee per una forte incidenza dei contributi sociali, che sono arrivati a valere quasi un quinto del Pil.

La Spagna ha, invece, ridotto il peso dei contributi sociali, finanziando l’intervento con una forte azione sulle imposte indirette, passate dall’8,8% all’11% del Pil. La Germania, che come detto è l’unico paese ad aver ridotto il peso delle entrate, ha spostato parte del prelievo dai contributi sociali alle imposte dirette. Questa breve descrizione mostra come i paesi europei che stanno ottenendo i migliori risultati in termini di andamento delle esportazioni siano anche quelli che hanno posto in essere negli ultimi anni un riordino della composizione del prelievo finalizzato alla riduzione del costo del lavoro, con effetti positivi sulla competitività delle imprese nazionali. 

In Italia, nel 2013 le entrate totali sono risultate leggermente superiori ai 750 miliardi di euro. Nel 2009 erano 715. Negli ultimi quattro anni la composizione delle entrate è leggermente cambiata. Il gettito proveniente dalla imposte dirette si è avvicinato nel 2013 ai 240 miliardi di euro, arrivando a rappresentare il 32% del totale delle entrate. L’IRPEF assorbe la quasi totalità del gettito con oltre 170 miliardi. Negli ultimi quattro anni il prelievo sul reddito delle persone fisiche si è leggermente spostato dalla componente erariale a quella regionale e comunale. L’imposta sui redditi societari vale 35 miliardi di euro e rappresenta quasi il 5% del totale delle entrate, un peso sostanzialmente invariato rispetto al 2009.  

Anche il gettito delle imposte indirette è aumentato nel corso degli ultimi anni, superando i 220 miliardi di euro e arrivando ad assorbire il 30% del totale delle entrate. Il peso dell’IVA si è mantenuto oltre il 12%, nonostante la flessione che ha interessato gli ultimi due anni come conseguenza del brusco calo dei consumi: il gettito, pari a 85 miliardi di euro nel 2009, aveva raggiunto i 97 miliardi nel 2011 per poi scendere a 92 lo scorso anno.

Un forte aumento ha interessato l’imposta sugli immobili: nel 2009 il gettito dell’ICI era pari a meno di 9 miliardi di euro, nel 2013 l’IMU ha incassato quasi 20 miliardi. Stabile il gettito dell’IRAP, con oltre 30 miliardi.  6 2 luglio 2014  L’aumento sia delle imposte dirette sia di quelle indirette ha finanziato la riduzione dei contributi sociali. Con un introito complessivo pari a oltre 210 miliardi di euro hanno rappresentato nel 2013 il 28% del totale delle entrate, con un calo di oltre 1 punto rispetto al 2009.  

Prosegue il calo degli investimenti delle Amministrazioni pubbliche

Nel 2013, le spese complessive delle Amministrazioni pubbliche italiane sono state pari a quasi 800 miliardi di euro, un importo leggermente più basso di quello dell’anno precedente. Di questi, oltre 80 sono stati destinati al pagamento degli interessi sul debito. Escludendo questa voce, la cui ampiezza è solo in piccola parte influenzabile dalle decisioni di politica fiscale, negli ultimi quattro anni, la spesa pubblica è scesa dal 47,9% del Pil nel 2009 al 46% nel 2013. Guardando come questa riduzione è stata distribuita tra le singole voci emergono, però, alcune criticità. Solo 0,3 degli 1,9 punti percentuali del taglio complessivo sono il risultato di una riduzione delle uscite correnti al netto degli interessi. La restante parte è il frutto del risparmio ottenuto grazie ad una consistente riduzione delle uscite in conto capitale.

Tra le uscite correnti, un sensibile calo ha interessato il costo del lavoro. Nel 2009, la spesa per i dipendenti delle Amministrazioni pubbliche aveva superato i 170 miliardi di euro, pari all’11,3% del Pil. Nel 2013, grazie al blocco del turnover e alla sospensione dei rinnovi contrattuali, si è scesi a 164 miliardi, il 10,5% del Pil. Una leggera riduzione ha interessato anche il costo sostenuto per le prestazioni sociali in natura, che per oltre il 90% sono riferite al comparto sanitario, e per i consumi intermedi, voci che valgono rispettivamente poco meno del 3% e circa il 5,5% del Pil.

Questi risparmi sono stati, però, quasi interamente assorbiti dall’aumento del costo delle prestazioni sociali in denaro, che per la gran parte comprendono le uscite relative al pagamento delle pensioni. Nel 2013, ci si è avvicinati ai 320 miliardi di euro, oltre il 20% del Pil, anche a causa dell’aumento che ha interessato la componente non pensionistica legata alle erogazioni degli ammortizzatori sociali. Un percorso di maggiore contenimento ha, invece, riguardato le uscite in conto capitale. Gli investimenti delle Amministrazioni pubbliche sono passati dal valere il 2,5% del Pil nel 2009 all’1,7% nel 2013.

Nel primo anno di crisi, gli investimenti pubblici si erano avvicinati ai 40 miliardi di euro; nel 2013 siamo scesi a 27, un calo prossimo al  7 2 luglio 2014  30%. Una riduzione della spesa ha interessato anche i contributi agli investimenti; siamo passati dall’1,6% del Pil nel 2009 allo 0,9%. Guardando al complesso di quanta parte del bilancio viene destinata agli investimenti sia nella forma di investimenti pubblici sia come contributo a quelli privati, emerge come negli ultimi quattro anni sia stato realizzato un taglio di oltre 20 miliardi di euro.

Quanto accaduto in questo periodo non è, però, solo il frutto dell’esigenza di riequilibrare i conti in un periodo di difficoltà economica quanto anche il proseguimento di una tendenza che aveva interessato gli anni precedenti. Il rapporto tra il totale degli investimenti pubblici e dei contributi a quelli privati e il Pil è passato dal 4,1% nel 2009 al 2,7% nel 2013, lontano dai valori prossimi al 5% registrati all’inizio degli anni Novanta. 

Il calo degli investimenti delle Amministrazioni pubbliche ha interessato tutte le principali tipologie di beni. Dal 2009 al 2013, gli investimenti in fabbricati, che rappresentano quasi il 40% del dato complessivo, si sono ridotti di circa un terzo. La spesa per le opere stradali è passata dai 9 miliardi di euro nel 2009 a meno di 7 miliardi, con una flessione di circa un quarto simile a quella che ha interessato tutte le altre spese del genio civile, che comprendono tra le altre cose gli investimenti nei porti e nelle linee ferroviarie, scese da 6,5 a meno di 5 miliardi.  

La riduzione degli investimenti appare ancora più evidente se dai valori correnti passiamo alle quantità. Al netto della variazione dei prezzi, l’insieme degli investimenti pubblici e del sostegno fornito a quelli privati si è ridotto negli ultimi quattro anni di quasi il 40%, crollando sul livello minimo dal 1990. Il taglio ha colpito anche quella parte degli investimenti pubblici che riveste una maggiore importanza incidendo sulle potenzialità di sviluppo dell’economia. Dal 2011 al 2013, gli investimenti in opere stradali si sono ridotti di oltre un quarto, scendendo 10 punti percentuali sotto il livello del 2000. Stesso discorso per le altre opere del genio civile, crollate su livelli inferiori di circa il 30% rispetto a quelli dell’inizio dello scorso decennio.

I cambiamenti degli ultimi anni hanno modificato la composizione delle uscite delle Amministrazioni pubbliche, accentuando processi in corso anche negli anni precedenti la crisi. Considerando il totale delle spese al netto degli interessi, le uscite correnti rappresentavano l’88% del totale all’inizio degli anni Novanta; nel 2009 eravamo al 91%, nel 2013 siamo saliti oltre il 94%. Gli investimenti delle Amministrazioni pubbliche sono passati in poco più di venti anni dal valere oltre il 7% del totale a meno del 4%,  8 2 luglio 2014  con i contributi agli investimenti privati che oggi assorbono solo il 2% di quanto viene speso complessivamente.  

Alcune osservazioni conclusive 

La correzione dei conti pubblici realizzata in Italia nel corso degli ultimi anni, sebbene di rilievo, non appare di ampiezza straordinaria se confrontata con quella delle altre principali economie europee. Una visione d’insieme mostra un certo equilibrio nella distribuzione degli interventi tra le entrate e le uscite. Andando a guardare i dettagli emergono, però, alcuni aspetti che meritano attenzione. Seguendo l’evoluzione delle decisioni nel corso dei quattro anni considerati si nota prima di tutto una tendenza a spostare l’attenzione maggiormente su un aumento delle entrate a scapito del contenimento delle uscite. 
Sul fronte delle entrate, l’aumento della pressione fiscale appare poca cosa nel confronto internazionale, soprattutto avendo bene in mente il valore finale, che risulta ben lontano da quello degli altri paesi. Negli ultimi quattro anni, la riduzione dell’imposizione fiscale sul lavoro sembra, inoltre, meno coraggiosa di quella seguita in altri paesi. Dal lato delle uscite, positiva appare la riduzione di alcune voci correnti. Sull’aumento delle prestazioni sociali in denaro poco può esser fatto, tenuto conto delle manovre sulle pensioni già approvate. L’aumento del costo sostenuto per gli ammortizzatori sociali rende, però, sempre più opportuna un’adeguata riorganizzazione dell’intero sistema. L’aspetto più preoccupante è, senza dubbio, il brusco calo degli investimenti.

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Un Paese che già soffre un livello di infrastrutture non adeguato rischia di essere ulteriormente penalizzato da decisioni di riduzioni della spesa che vanno ad incidere su voci, quali ad esempio le opere stradali, che attraggono meno l’attenzione dell’opinione pubblica di quanto accada per alcune spese correnti. Gli effetti sulla crescita delle politiche di riequilibrio dei conti potrebbero, dunque, andare ben oltre il breve termine qualora questa tendenza di costante riduzione degli investimenti proseguisse anche nei prossimi anni. 

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