L’Italia è tra i Paesi in Europa che dal 2008 hanno fatto di più sul fronte del contenimento dei disavanzi pubblici. Un fronte che al momento vede ben venti dei ventisette membri dell’Unione europea avere aperta a proprio carico a Bruxelles una procedura per deficit eccessivo, la cosiddetta “Edp” stabilita ai sensi dell’articolo 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dell’annesso Protocollo n. 12. Nella più ristretta cerchia dell’area euro i paesi soggetti a EDP sono dodici su diciassette. I membri della moneta unica in regola sono solo la Germania, la Finlandia, l’Estonia, il Lussemburgo e Malta.
Per uscire dalla procedura di deficit eccessivo bisogna convincere l’Europa circa la sostenibilità del contenimento dei disavanzi pubblici. Non basta solo aver rispettato la soglia del tre per cento nell’ultimo anno. Occorre dimostrare un cammino di riequilibrio con radici più estese. Sotto questo profilo i numeri dell’Italia appaiono confortanti. Sommati per i cinque anni che vanno dal 2008 al 2012, i valori cumulati del rapporto tra deficit pubblico e PIL ammontano per l’Italia a venti punti contro una media dell’Area euro di 23 punti e a livelli di ventotto e di quarantacinque punti in capo rispettivamente alla Francia e alla Spagna.
Nel quinquennio più difficile per l’economia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia ha realizzato un rapporto tra deficit pubblico e PIL in media d’anno pari al quattro per cento. Nello stesso periodo la Spagna ha accompagnato la recessione della economia iberica con un disavanzo pubblico pari in media a ben nove punti percentuali di prodotto interno lordo l’anno.
Rientrare nel circolo ristretto dei paesi conformi alla norma del tre per cento rappresenta un passaggio importante. Tralasciando Malta e Lussemburgo, l’Italia risulterà l’unico paese con il deficit in regola posto fuori dalla nuova lega anseatica che oggi unisce Berlino con Riga ed Helsinki. Il rientro di Roma costituirà un elemento utile per problematizzare il luogo comune di una “virtù” fiscale spaccata tra nord e sud dell’Europa o, peggio, tra “centro” e “periferia” dell’Unione.
Nel pratico, la chiusura della procedura d’infrazione potrebbe creare i presupposti per un ulteriore abbassamento dello spread tra Btp e Bund. Uno spread che scendesse a quota 100 invece di 250 comporterebbe una minore spesa in conto interessi valutabile entro un anno in circa quattro miliardi di euro. I cali dello spread, però, dipendono da molte variabili, anche extraeuropee. Al di là della variabilità dei mercati, la promozione nel gruppo di testa dei virtuosi consentirà all’Italia di riaprire la partita sulla cosiddetta “golden rule” dei conti pubblici.
L’obiettivo è utilizzare i margini di flessibilità previsti dal Patto europeo di Stabilità per pre-dedurre dal calcolo del disavanzo le spese di cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali e le risorse per la lotta alla disoccupazione giovanile e per le grandi infrastrutture necessarie per rilanciare uno sviluppo sostenibile. Per l’Italia gli importi in questione risulterebbero significativi.
È un problema italiano ed anche europeo. Tra austerità e crescita c’è un grande vuoto che va colmato. Chiudere la procedura di infrazione riguardante il deficit pubblico rappresenta per l’Italia un passo preliminare. Un contributo ulteriore e ben più decisivo dovrà venire dall’Europa, chiamata a mettere in campo nuove idee oltre che risorse aggiuntive. A livello europeo occorrono un “growth compact” e anche un “industrial compact”.
Serve un cambiamento di paradigma in primo luogo culturale nella cui attesa non si può, però, stare fermi. Al di là del macro, ci sono dei catalizzatori “micro” che anche in questa difficilissima congiuntura possono aiutare a ridurre il divario tra austerità e ripresa lavorando su un fattore chiave come è quello della innovazione. Al di là della retorica, parliamo ad esempio di imprese “start up e di reti di imprese. Sia sulle start up che sulle reti di imprese negli ultimi anni sono stati fatti degli interventi “pro-growth” di modesto impegno per le pubbliche finanze ma di notevole lungimiranza. È una strada su cui insistere.
Tra il 2008 e il 2012 il numero di investimenti in iniziative “early stage” ovvero di nuovo sviluppo è salito in Italia da 208 a 506. Nel solo 2012 l’incremento è stato del trenta per cento. Essenziale in questo sviluppo si mostra il capitale di rischio e di competenze strategiche e organizzative apportato dai “business angels”, in larga parte imprenditori, liberi professionisti o dirigenti aziendali ancora in attività che, attraverso la sottoscrizione di una quota minoritaria del capitale, affiancano i soci fondatori nella fase di avvio di un’impresa.
Allo stesso modo aumentano le reti formate come libera aggregazione tra imprese con l’obiettivo di accrescere la loro competitività e innovatività. Nel volgere di poco più di un biennio il numero di imprese coinvolte in aggregazioni costituite ai sensi della legge 33/2009 e seguenti è salito da zero a oltre 3.300 unità. Cinquecento imprese start-up e tremila imprese “retiste” sono certamente poche rispetto alle decine di migliaia di aziende che la recessione ha fatto chiudere. Sono però un segno della possibilità di ripartire. Da oggi.