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FOCUS BNL – Dietro il rallentamento del commercio internazionale c’è l’ombra del neoprotezionismo

Negli ultimi mesi il contesto economico e politico mondiale è stato caratterizzato da eventi destinati ad avere un peso rilevante sulle dinamiche dei prossimi decenni: i problemi di ordine geo-politico e il rallentamento significativo (e ormai protratto nel tempo) di alcuni indicatori macroeconomici hanno portato molti osservatori a ritenere che la fase di globalizzazione in corso dal secondo dopoguerra sia terminata, e che lungi dall’essere un fenomeno diverso dai precedenti, si sia trattato in realtà solo dell’ultimo di una serie di cicli che si ripetono a intervalli più o meno lunghi e regolari da decenni. 

D’altro canto la globalizzazione richiede una figura di architetto e una di arbitro, e oggi nessun paese è in grado (o vuole) svolgere l’una o l’altra funzione: né gli Stati Uniti, che sono stati a lungo protagonisti in entrambi i ruoli, né paesi emergenti come Cina o India, impegnati ancora a costruirsi una piena identità sul piano interno. Come sempre avviene per ogni fenomeno che va affievolendosi, ci si interroga oggi sugli effettivi benefici che la globalizzazione ha portato in termini economici e sociali. In un recente rapporto l’Unctad ha avanzato l’idea che per i paesi in via di sviluppo la partecipazione alla catena mondiale del valore non abbia portato i benefici previsti, e che anzi in numerose occasioni per molti di questi paesi i costi legati al libero scambio abbiano superato i benefici.

Uno degli esempi più citati è proprio quello della Cina, paese oggi leader nel commercio mondiale di prodotti high tech (l’import e l’export cinesi contano per circa un terzo del valore mondiale degli scambi di questi beni) ma nel quale affluirebbe solo il 3% dei profitti realizzati su scala globale dalle imprese di tale settore. Negli ultimi anni la graduale frammentazione dei rapporti internazionali è divenuta evidente nella proliferazione di accordi commerciali che ha seguito il fallimento del Doha Round. Abbandonando lo spirito degli accordi precedenti, che era quello di ricercare una maggiore integrazione tra paesi a un diverso stadio di sviluppo economico, oggi sempre più spesso gli accordi commerciali prediligono la vicinanza geografica o (ancora più frequentemente) coinvolgono gruppi di paesi omogenei tra loro: la Trans Pacific Partnership e la Transatlantic Trade and Investment Pact1 ne sono un esempio. 

I problemi nell’Unione monetaria europea, e prima ancora dell’Unione europea (realtà nate dalla volontà di allargare i mercati di riferimento e fare del libero scambio uno strumento di crescita e pace), insieme al tentativo (fatto proprio in questi mesi) da parte dei cosiddetti BRICS di creare un’istituzione in grado di riconoscere loro un peso politico superiore a quello concesso dal Fondo Monetario Internazionale,2 sono tutte indicazioni che hanno spinto numerosi osservatori a ritenere che l’ordine mondiale disegnato a partire da Bretton Woods sia in gran parte da rivedere, e che il concetto stesso di libero scambio, che ne rappresentava un pilastro fondamentale, sia destinato nel prossimo futuro ad avere un ruolo forse meno importante che negli scorsi decenni nello stimolare la crescita mondiale.

Rallenta il commercio mondiale

I segnali di una sostanziale inversione di rotta nella crescita del commercio mondiale sono divenuti evidenti già nel biennio 2012-2013 in cui lo scambio di beni e servizi ha viaggiato a tassi di crescita vicini (o inferiori) al Pil mondiale. Il fatto rappresenta una forte anomalia nello scenario macroeconomico mondiale, in cui negli ultimi trenta anni il rapporto tra commercio e Pil è stato quasi sempre di 2 a 1. In effetti, da quando i dati sono disponibili, l’unico periodo in cui la crescita degli scambi mondiali è risultata inferiore alla crescita del Pil per periodi protratti è stato tra il 1913 e il 1950. A partire dal 1980 e fino al 2011 invece, nonostante il crollo registrato nel 2009, il commercio mondiale è cresciuto del 7% circa l’anno, contro valori intorno al 3-4% del Pil. 

Sebbene in lieve ripresa, i dati relativi al 2014 sembrano confermare il trend discendente. Secondo l’Unctad, nel II trimestre dell’anno l’export mondiale ha registrato una crescita contenuta, pari all’1,1% su base annua, dopo il +2,1% del trimestre precedente. Il dato è frutto di andamenti divergenti tra le diverse aree del pianeta anche se rispetto al passato il gap tra paesi e aree a diverso stadio di sviluppo si va riducendo. Nei paesi in via di sviluppo la crescita è risultata pari al 2,4% a/a, mentre il dato degli avanzati risulta di poco superiore allo zero (0,2%), dopo quattro trimestri di variazione positiva. Per le economie in transizione il II trimestre del 2014 ha segnato una variazione negativa (-0,5%).

La deludente performance dei paesi sviluppati è stata determinata anche dal dato negativo registrato dalla Ue-28 (-1,1% a/a) condizionato a sua volta da una sostanziale stagnazione delle vendite all’estero del principale motore europeo (la Germania) e dal cattivo risultato francese (-2,8%). Nel trimestre marzo-giugno è risultato negativo anche il dato relativo alla Spagna (-0,5%), paese che da inizio 2013 al I trimestre 2014 aveva fatto registrare una variazione media del 7,6%, superiore a quella osservata dalla Cina nello stesso periodo (leggermente inferiore al 7%). Per l’Italia il II trimestre ha segnato una crescita del 2% a/a, dopo il +1% del I trimestre e una sostanziale stagnazione dei due trimestri precedenti. Il quadro relativo ai paesi in via di sviluppo e in transizione è più complesso.

L’analisi degli ultimi dati mostra infatti un andamento positivo delle vendite all’estero dei paesi esportatori di prodotti manufatti: la media mobile a tre mesi mostra tassi di crescita sostenuti per Polonia, Romania, Repubblica Ceca, India, Malaysia, Cina, Filippine Ungheria e Messico, paesi che beneficiano di un aumento della domanda, proveniente soprattutto dagli Stati Uniti. Per contro, alcuni paesi esportatori di materie prime (soprattutto metalli di base), in particolare dell’America Latina e dell’Africa, hanno subito un forte rallentamento dell’export, con variazioni negative molto marcate nel caso di Perù, Sud Africa, Colombia e Indonesia. Per la fine di quest’anno le stime del WTO prevedono una crescita del commercio mondiale intorno al 4,5% a/a, e un incremento appena sopra il 5% l’anno prossimo, stime confortate da una crescita della domanda mondiale di container che viaggia intorno al +4-6% per il prossimo biennio.

Sebbene il dato previsto per il 2014 sia superiore a quello registrato nel 2013 (in effetti è più del doppio), esso è comunque inferiore alla media degli ultimi 20 anni (pari al 5,3%). Il rallentamento del commercio non ha bloccato la ricomposizione del peso delle quote di mercato sull’export mondiale tra paesi avanzati ed emergenti in corso da alcuni anni. Nel 2013 (ultimo dato disponibile di fonte UNCTAD) la quota dell’export dei paesi in via di sviluppo ha raggiunto il valore più alto (48,8%) dal 1948 (da quando cioè è disponibile la serie), quando non arrivava al 32%. La progressione di questi paesi è stata in effetti molto lenta, e con diversi periodi di rallentamento in cui il gap con gli avanzati si è ampliato (come è avvenuto nel 1972, quando le due quote sono risultate pari al 76,9 e a 18,9%).

Il cambio di passo è avvenuto solo all’inizio degli anni Duemila, con un impennata nel 2005 – quando in un solo anno la quota dei paesi in via di sviluppo è aumentata di 2,4 punti percentuali – e nel 2010, con un guadagno di ulteriori 2,2 punti. L’impulso maggiore è ovviamente arrivato dalla Cina, che entrata negli anni Duemila con una quota appena sotto il 4%, è arrivata al 7,9% nel 2005, per poi superare il 10% nel 2010. Oggi il paese esporta l’11,7% delle merci a livello mondiale, una quota avvicinata solo da quella statunitense e, a distanza, da quella tedesca, che nonostante un percorso discendente conserva comunque una quota di mercato del 7,7%. Tra i paesi dell’area euro la Germania è seguita dalla Francia (3,1%) e dall’Italia, che con una quota del 2,8% rimane ampiamente sopra la Spagna (1,7%).

Le cause strutturali del rallentamento

Molti sono i fattori che hanno contribuito a determinare il recente rallentamento del commercio, alcuni dei quali limitati al contesto congiunturale, altri destinati ad avere ripercussioni nel lungo periodo. Tra i primi, il WTO attribuisce un peso elevato al rallentamento della domanda proveniente dai paesi dell’area euro, e all’incertezza sulla gestione della politica monetaria USA che fino all’inizio di quest’anno ha avuto conseguenze negative sui tassi di cambio di alcuni paesi emergenti. Ad avere un impatto maggiore e più duraturo sono però altri processi, in primo luogo un rafforzamento del protezionismo a livello mondiale. È ormai generalmente condivisa l’idea che le conseguenze della Grande depressione del 1929 siano state amplificate da una forte ondata di protezionismo avviata dagli Stati Uniti con l’introduzione, nel 1930, del cosiddetto Smooth-Hawley Tariff Act, che portava a livelli altissimi i dazi sulle importazioni negli USA di migliaia di prodotti.

Nonostante alcune autorevoli dichiarazioni contro il protezionismo, e la diffusione di un’ampia letteratura sul tema a dimostrare l’inefficacia di tali misure nel bloccare la crisi, a partire dall’autunno 2008 (due mesi dopo il fallimento di Lehman Brothers) le misure protezionistiche si sono moltiplicate; uno studio condotto in Svizzera3 e riferito ai soli paesi del G20, conta oltre 1.500 misure protezionistiche (formali e informali) introdotte tra novembre 2008 e la primavera del 2014. La Commissione europea4 in un rapporto di fine 2013, facendo riferimento a una definizione più stringente di misura protezionistica ne conta 688 tra ottobre 2008 e settembre 2013, un ritmo di dieci nuove misure al mese. Secondo uno studio del WTO5 l’aumento dei costi legato anche alla presenza di numerosi ed elevati dazi all’import potrebbe determinare una regressione nella capacità di alcuni paesi emergenti di realizzare prodotti ad elevato contenuto tecnologico, relegandoli a produzioni ad alta intensità di lavoro e scarsa specializzazione come alcuni comparti del tessile.

È lo stesso WTO a sottolineare inoltre come le barriere al commercio internazionale introdotte per risolvere problemi di breve periodo siano poi molto difficili da ridurre o eliminare. Molte limitazioni al commercio vengono giustificate dai singoli paesi sia sulla base di un (presunto) efficace sostegno alle industrie nazionali nascenti, sia soprattutto come misure di protezione dei livelli occupazionali interni. L’Ocse tuttavia ha sottolineato6 come nessuno degli studi condotti a partire dal 2000 abbia rilevato una correlazione significativa tra andamento della disoccupazione e il peso delle importazioni sul Pil: nel complesso dei paesi Ocse le due variabili sembrano semmai avere un andamento divergente. Uno studio condotto negli Stati Uniti dal National Bureau of Labor Statistics ha inoltre dimostrato come solo il 2,5% dei posti di lavoro persi tra il 1996 e il 2008 sia da attribuire a fenomeni legati al maggiore import penetration, all’outsourcing e così via, contro oltre il 50% dovuti a cambiamenti nella domanda di alcuni prodotti o a miglioramenti tecnologici.

Al di là di queste misure attive di contrasto al commercio, a rallentare il flusso mondiale di merci gioca un ruolo importante anche l’aumento del costo del lavoro in alcuni paesi emergenti (soprattutto la Cina), fenomeno che ha ridotto il vantaggio di frammentare la catena produttiva attraverso processi di delocalizzazione. Nuove tecnologie quali le stampanti 3D, o l’automazione di molti processi manuali, sono destinati a dare maggiore impulso ai fenomeni di ri-localizzazione. Dal lato della domanda pesa molto il rallentamento di alcune economie emergenti, e soprattutto la lentezza non prevista con cui in Cina stanno acquistando peso i consumi interni. 


Allegati: Bnl Focus

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