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Fiscal cliff, Obama tenta il miracolo: senza accordo il 1° gennaio scattano 1,2 trilioni di tagli

La bomba a orologeria, se non disinnescata per tempo, esploderà nella notte di San Silvestro. Alla mezzanotte del 31 dicembre gli Stati Uniti avranno ben poco da festeggiare se Barack Obama, rientrato di corsa dalla breve vacanza alle Hawaii per districare il caso, non avrà trovato un accordo con Camera e Senato per evitare il cosiddetto fiscal cliff, termine che echeggia da mesi e che anche oggi, nell’ultima seduta del 2012, sta preoccupando non poco i mercati finanziari di tutto il mondo.

Ma cosa è esattamente questo “baratro fiscale”? L’espressione è in uso dalla fine del 2010 ed è stata rilanciata con forza a fine febbraio 2012 dal presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke. Parlando alla Camera il banchiere centrale statunitense disse che “un profondo baratro fiscale fatto di grossi tagli di spesa e aumenti di tasse” avrebbe colpito il Paese se la politica non avesse disinnescato il rischio, accordandosi su dove tagliare la spesa e su come aumentare le imposte.

Il fiscal cliff era stato allora inserito da pochi mesi nel sistema in base al Budget Control Act dell’agosto 2011, quando il presidente Obama e lo speaker repubblicano della Camera Boehner non trovarono l’accordo sui tagli alla spesa e gli aumenti alle tasse da fare per affrontare il problema del debito e ridurre il deficit di 1.200 miliardi in dieci anni, ripromettendosi di raggiungerlo più in avanti. Ma ormai siamo al dunque, al punto di non ritorno: dal 1° gennaio 2013 scadono una serie di agevolazioni fiscali, e scattano tagli automatici alla spesa per appunto 1,2 trilioni in dieci anni. Per dare un’idea dell’impatto, questo significherebbe che nell’anno fiscale 2013, tra più tasse e meno spesa, ci saranno 600 miliardi in meno per l’economia: il 4% del Pil americano. Come dire, recessione assicurata, con conseguenze probabilmente apocalittiche per l’economia e la finanza di tutto il pianeta.

E non è tutto: a ciò si aggiunge anche il problema del tetto del debito, tornato alle condizioni dell’agosto 2011. Mercoledì sera il ministro del Tesoro Geithner ha annunciato che lo Stato ha speso quasi tutti i 16,394 trilioni di dollari consentiti dall’intesa del 2011. Lunedì 31 dicembre la soglia verrà persino superata, con una tempistica drammatica, e senza un nuovo accordo gli Usa rischiano la bancarotta.

Il presidente Obama tenterà entro oggi l’accordo in extremis con il repubblicano Boehner, che pressato dall’ala estrema del suo partito, quella del Tea Party per intenderci, ha già rifiutato una prima proposta di alzare le imposte per i redditi superiori ai 400.000 dollari l’anno. Boehner, sotto il tiro del Tea Party – che è contrario a qualunque incremento fiscale ma i cui voti allo stesso tempo saranno decisivi per la sua rielezione da speaker della Camera – ha risposto proponendo di alzare le imposte solo a chi guadagna oltre un milione di dollari. Il fatto è che la sua stessa base ha bocciato l’iniziativa.

Come farà il presidente appena rieletto a uscire dall’impasse? Puntando sulla collaborazione del Senato, che vista la situazione complicata alla Camera potrebbe almeno momentaneamente e parzialmente dare respiro a Obama, rassicurando la comunità internazionale e i mercati, oltre che i due milioni di disoccupati che vedranno salve le loro indennità grazie a un primo intervento che miri quantomeno ad evitare le tasse e i tagli più dolorosi. Sembra infatti che al Senato lo scontro fra democratici e repubblicani sia meno insuperabile. Entro stasera (nella notte italiana) avremo una risposta: se sarà negativa, come molti temono, gli Stati Uniti avranno un piede nel precipizio.

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