Il dibattito sul finanziamento pubblico dei partiti politici fa tornare alla mente le parole che Schumpeter scrisse nel 1918: “Lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la configurazione della sua struttura sociale, le imprese che la sua politica può preparare, tutto ciò, e molto altro ancora sta scritto nella sua storia fiscale senza false retoriche”. La breve storia fiscale del finanziamento pubblico dei partiti italiani ne è un buon esempio.
Sappiamo che, correndo l’anno 1993 e approssimandosi le elezioni politiche che si tennero nel marzo del 1994, i partiti politici dovettero affrontare il problema del loro finanziamento a carico del bilancio pubblico che il precedente referendum aveva abolito.
Per soddisfare tale esigenza con legge 10 dicembre 1993 n. 515 (GU n. 292 Suppl. Ord. del 14/12/1993) venne approvato (art. 9 comm1 1 e 2 ) il “Contributo per le spese elettorali”, che venne così regolato: “Il contributo è corrisposto ripartendo tra gli aventi diritto due fondi relativi, rispettivamente, alle spese elettorali per il rinnovo del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. L’ammontare di ciascuno dei due fondi è pari, in occasione delle prime elezioni politiche che si svolgeranno in applicazione della presente legge, alla metà della somma risultante dalla moltiplicazione dell’importo di lire 1.600 per il numero degli abitanti della Repubblica quale risulta dall’ultimo censimento generale”. Seppure mascherato sotto altra dizione, si trattava di un contributo una tantum e non di un finanziamento prolungato negli anni.
Per chi, come lo scrivente, valuta con favore il finanziamento (purché moderato) pubblico dei partiti (caso mai associato a un finanziamento dei privati che ne garantisca la trasparenza) l’impegno di allora a carico del bilancio dello stato non apparve particolarmente elevato. La legge di allora prevedeva, infatti, un onere di circa 61 miliardi di lire (pari a circa 30 milioni di euro) equamente ripartito tra Camera e Senato. Si valuti anche la saggezza del legislatore che preferì la via del rimborso forfettario rispetto a quella del piè di lista che avrebbe favorito (dato il pagatore) la fiorente attività della produzione di fatture false. Chi oggi propone di adottare il rimborso delle spese documentate deve riflettere sui rischi di nuovo incentivo al malaffare.
Pochi anni dopo, nel 1999, la nuova legge 3 giugno 1999 n.157 comportò non soltanto il raddoppio dei fondi da alimentare a carico del bilancio dello stato (da due, Camera e Senato, a quattro, Camera, Senato, Parlamento europeo, elezioni regionali), ma anche il raddoppio dell’ammontare del contributo da 1.600 lire a 4.000 lire. Così come si dispone al comma 5 della legge allora emanata: “L’ammontare di ciascuno dei quattro fondi relativi agli organi di cui al comma 1 e’ pari alla somma risultante dalla moltiplicazione dell’importo di lire 4.000 per il numero dei cittadini della Repubblica iscritti nelle liste elettorali per le elezioni della Camera dei deputati”. In ogni caso il finanziamento rimase di tipo una tantum. Agli oneri derivanti della nuova legge pari a lire 208 miliardi per il 1999, a lire 198 miliardi per il 2000 e a lire 257 miliardi annue a decorrere dal 2001, si provvide a carico delle risorse rivenienti dalla soppressione delle autorizzazioni di spesa di cui alle leggi 18 novembre 1981, n. 659, 10 dicembre 1993, n. 515, 23 febbraio 1995, n. 43, e 2 gennaio 1997
Poi, con legge 26 luglio 2002, n. 156 “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 29 luglio 2002 si innovò ulteriormente con il seguente emendamento: alla legge 3 giugno 1999, n. 157, sono apportate le seguenti modificazioni: all’articolo 1, comma 5, dopo le parole: «è pari» sono inserite le seguenti: «per ciascun anno di legislatura degli organi stessi,» e le parole: «lire 4.000» sono sostituite dalle seguenti: «euro 1,00».
Così fatto, ciò che prima costituiva un rimborso forfettario di spese elettorali, divenne un finanziamento duraturo nel tempo senza più alcuna relazione con le spese elettorali, come dimostrano i rapporti resi pubblici tra spese elettorali (circa 600 milioni di euro) e ammontare dei trasferimenti ai partiti politici (circa 2,5 miliardi di euro). E così i partiti politici persero l’onore agli occhi degli elettori.
Infatti come si disciplina al nuovo comma 5 della legge 157 (ancora oggi in vigore) “L’ammontare di ciascuno dei quattro fondi relativi agli organi di cui al comma 1 è pari, per ciascun anno di legislatura degli organi stessi, alla somma risultante dalla moltiplicazione dell’importo di euro 1,00 per il numero dei cittadini della Repubblica iscritti nelle liste elettorali per le elezioni della Camera dei deputati.
Tutto qui. Per ritrovare l’onore dei partiti politici è dunque sufficiente eliminare dalla legge vigente (1999/157) otto parole con il seguente emendamento da presentare nel primo provvedimento che il parlamento ritenga utile: al comma 5 dell’art. 9 della legge 3 giugno 1999, n.157 (e successive modifiche) sopprimere le parole “per ciascun anno di legislatura degli organi stessi”.
Una volta si diceva “Torniamo allo Statuto” : è il titolo di un articolo pubblicato il 1º gennaio 1897 nella rivista Nuova Antologia a firma del deputato della Destra storica Sidney Sonnino che con tale scritto denunciava l’inefficienza delle istituzioni e le reciproche ingerenze dei poteri fra governo e Parlamento. Oggi, più modestamente, per recupera l’onore dei partiti (e forse qualche elettore) è sufficiente tornare ai principi della legge ordinaria del 1993, emanata non dal Re d’Italia ma dal Parlamento italiano. Anche la storia fiscale del nostro paese migliorerebbe agli occhi del mondo.