È stata la vittoria dei Miami Heat, che nella notte battono gli Oklahoma City Thunder per 121 a 106, vincendo il secondo titolo della loro storia. È stata la vittoria soprattutto, inutile girarci intorno, di Lebron James, la prima per lui, la più dolce.
La scimmia è scesa dalla spalla, insieme a quell’etichetta fastidiosa, quella di perdente, la peggiore che possano affibbiarti in America e nello sport, un’etichetta che si stava facendo strada pericolosamente sulla sua schiena, poco sotto il tatuaggio che recita “The chosen one”, il prescelto, quasi una maledizione fino ad oggi.
“È l’unica cosa che conta” è stata la prima cosa che Lebron ha detto, dopo la partita, che è scivolata via senza storia, chiudendo la serie sul 4 a 1 senza particolari sussulti. Per James ieri una tripla doppia da 26 punti, 11 rimbalzi e 13 assist (più 6 recuperi e 2 stoppate, a fronte di una sola palla persa), oltre all’ovvio premio di Mvp delle finali, chiuse con medie stellari in tutte le categorie statistiche, primo della sua squadra per punti, rimbalzi, assist e palle recuperate.
Medie jordanesche, si direbbe. E già, nella notte, sono iniziati a sprecarsi i paragoni proprio con lui, il mito, Michael Jordan, l’innegabile, e al momento insuperabile, modello di un’intera generazione di cestisti. Troppo diversi come giocatori, a partire dal ruolo e da una struttura fisica imparagonabile, oltre a caratteristiche tecniche che rimangono abbastanza differenti. Però il dominio che Lebron ha esercitato su tutte le fasi di gioco è sull’intera serie non può non ricordare da vicino quello di “Sua maestà” Jordan.
Durante la, assai cafona, notte di “The decision”, quando annunciò in diretta mondiale il nome della squadra in cui avrebbe giocato a partire dall’estate del 2010, una volta scaduto il suo contratto con Cleveland (la squadra della sua città) Lebron disse “Not one, not two, not three, not four…”, riferendosi ai titoli che avrebbe vinto con la nuova maglia di Miami. Pareva una delle sue tante spacconate, quella sera, ma adesso sembra qualcosa di piuttosto simile ad una promessa.
È stata la vittoria di Lebron, dicevamo, ma anche di tutta Miami. La vittoria del general manager Pat Riley e del vituperato coach Spoelstra, la vittoria del controverso progetto iniziato due estati fa, quando, nella freeagency, Riley riunì tre dei giocatori più talentuosi della loro generazione (James, Bosh e Wade), per formare un nucleo, quello dei “big three”, che allora sembrava imbattibile, ma che ad un certo punto, dopo la sconfitta nella finale dello scorso anno, sembrava non poter vincere mai.
È stata la vittoria di un Wade malconcio, ma sempre decisivo e di Bosh, mai come in queste finali a suo agio con il ruolo di gregario, senza più nessuna paura di sporcarsi le mani. È stata la vittoria dei comprimari, a partire da Battier, che ha giocato una serie finale strepitosa su entrambi i lati del campo, per finire con Mike Miller, che, nonostante una serie di infortuni spaventosa, ha sconquassato a suon di triple la difesa di Oklahoma, passando per Mario Chalmers, Norris Cole e capitan Haslem, e poi tutti gli altri.
È stata la sconfitta dei Thunder, battuti da una squadra più affamata, se non più forte, e dalla loro inesperienza, arrendendosi senza neanche lottare stanotte, una volta con le spalle al muro. Peccati di gioventù. Si dice che per vincere bisogna prima passare attraverso delusioni del genere, sconfitte brucianti quando il traguardo è più vicino.
Probabilmente è così. Probabilmente Durant, Westbrook e Harden (a dire il vero inguardabile nel corso delle finali) hanno imparato una lezione necessaria e la prossima volta, perché una prossima volta ci sarà, se nessuno smonta il giocattolo, le loro gambe tremeranno di meno.
Non mi stupirebbe se l’anno prossimo tornassero in finale, più convinti e affamati che mai. Non mi stupirei neanche se di fronte a loro dovesse pararsi un omone col numero 6 e la scritta “James” sulla maglia.