Gabriele Maria Finaldi è italiano da parte di padre mentre sua madre è anglo-polacca, Londra gli ha dato i natali nel 1965 e l’opera che più delle altre gli fa sussultare il cuore è la Deposizione dalla Croce di Rogier van der Weyden, olio su tavola conservata nel Museo del Prado a Madrid.
Ieri Finaldi era a Roma presso i Musei Vaticani per presentare l’esperienza della sua National Gallery al convegno internazionale “La conservazione preventiva nei grandi musei”, le gestione del grande pubblico, la necessità di manutenzione, pulizia e sicurezza che sono principi fondamentali nella gestione della National Gallery e validi per la sua salvaguardia.
A Londra continua a esserci molta Italia, non solamente lei in qualità di direttore di uno dei musei più noti al mondo, ma anche le passate esposizioni come Beyond Caravaggio o Michelangelo e Sebastiano o proprio in questi giorni quella su Mantegna e Bellini. Le piacerebbe fare un’esperienza lavorativa in Italia oppure ospitare nel suo museo i capolavori italiani è un modo per sentirla più vicina?
“Avrei molto piacere intanto di continuare le nostre attività italiane a Londra, perché le collezioni sono così marcate dalla presenza culturale italiana. Troviamo l’Italia nelle collezioni, nelle biblioteche, negli archivi. La presenza italiana nelle collezioni britanniche e a Londra in particolare è molto potente. C’è un grande entusiasmo nel pubblico. A me piacerebbe lavorare di più con i colleghi italiani certamente. Già lo facciamo a livello di scambi di opere, ma sarebbe ancora più bello fare allestire delle mostre insieme”.
Se ci fosse lei in Italia, se le venisse affidato un incarico pubblico cosa farebbe per avvicinare l’arte a cittadini e visitatori? Ricordiamo che per tradizioni molto musei britannici sono gratuiti, in Italia invece è recente la polemica sulla cancellazione della prima domenica del mese gratis al museo. Dall’estero, che idea si è fatto in merito: sarebbe applicabile il metodo britannico alla penisola? La gratuità dei musei svilisce davvero l’arte?
“La gratuità non è la panacea, ma in un ambiente dove esiste è possibile creare un pubblico che frequenta spesso il museo e che quindi diventa un pubblico impegnato con il museo e che crea un rapporto speciale con le istituzioni museali che quando si visita solo a livello turistico non si forma. Gli italiani vivono con l’arte intorno e lo fanno con molta naturalità. Non è tanto il modello britannico a dover essere introdotto in Italia, la cosa importante è che il museo oltre a essere un’attrazione turistica sia vitale per i cittadini. A Londra è tradizione mantenere i musei gratuiti, ma è sempre di più diventata una scelta specifica: il museo è pubblico e appartiene a tutti. In Gran Bretagna, quando si dice National si intende come della nazione, delle persone, dei cittadini. Se il museo è nostro, possiamo visitarlo quando vogliamo quante volte vogliamo. Così facendo il rapporto tra pubblico e istituzione rimane stretto. Il budget della National Gallery è pari a circa 40 milioni di sterline all’anno, e lo stato contribuisce per 24 milioni”.
Perché l’arte appartiene al popolo, ne forma l’identità nazionale, la gratuità dell’arte non ne svilisce il senso, la rende umana e la avvicina ai cittadini. “Sì. Visitare le mostre può essere visto come andare al cinema, la gente va al cinema con una certa frequenza. Sarebbe auspicabile che con la stessa frequenza le persone andassero a visitare la galleria d’arte della loro città. Cambiano le esposizioni, cambiano i film. Le nostre collezioni sono enormi, basterebbe vivere con più costanza la straordinaria ricchezza dell’arte. Questo è anche legato a una certa formazione, all’impegno nell’ambito scolastico, nell’aprire alla curiosità verso l’arte”.
L’influenza dei social network e l’utilizzo delle nuove tecnologie hanno cambiato il modo di fare e di vivere l’arte. Rispetto a prima sono cambiati sia l’esperienza della mostra sia il pubblico? Internet rende a portata di mano la conoscenza del mondo dell’arte, questo come incide sulla voglia dei visitatori a continuare a viaggiare?
La National Gallery è stata una delle prime istituzioni che ha consentito ai visitatori di fare foto durante la loro esperienza museale. In primo luogo perché è la società ad averlo chiesto e la galleria vuole essere parte della società che ha dato così tanta importanza alla comunicazione. Dall’altra parte il modo di comunicare è cambiato radicalmente e questo può aiutarci a essere più accessibili i nostri contenuti. Ci sono chiaramente altri contenuti da tenere in considerazione: l’esperienza davanti all’opera non è la stessa che vedere l’immagine online. Si approssima all’esperienza reale che comunque rimane quella privilegiata. Non è accessibile a tutti ovviamente.
Secondo lei, per l’economia del museo sono le esposizioni permanenti ad attirare i visitatori – penso alla Gioconda che non lascia il Louvre – oppure pensa sia necessario far girare l’arte, favorire prestiti tra i musei, creare mostre innovative, e rendere l’arte fruibile universalmente? I visitatori si spostano per vedere il museo o seguono l’esposizione temporanea?
Entrambe le cose, ma bisogna vivere nella realtà. L’aspetto evento della mostra non si può fare finta che non esista, esiste ed è importante. Oltre alle collezioni che dobbiamo sempre cercare di attivare per mantenere l’interesse del pubblico, la mostra diventa un momento di ricerca e di attenzione al pubblico e all’approccio a nuovi pubblici. C’è molta concorrenza tra le istituzioni e persino tra le città, e questo rende complicato il tutto, ma l’offerta culturale ora è talmente tanta che siamo fortunati. Organizzare mostre crea dei momenti di incontro tra le istituzioni e tra i paesi, tra gli esperti dei vari luoghi e sono momenti di scambio molto rilevanti.
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