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Filippo La Mantia, oste-chef cittadino del nord con il cuore in Sicilia

E’ un piacione ed è consapevole di esserlo. Dalla sua Sicilia, una terra che ha conosciuto nel tempo l’alternarsi di culture ricche di storia, dalla dominazione punica alla greca, dalla romana alla bizantina, dall’araba alla normanna, alla sveva, alla francese, alla spagnola ha ereditato la capacità di sapersi rapportare con le persone, intuendo e adattandosi ai linguaggi dei suoi interlocutori che sa far sentire sempre al centro delle sue attenzioni, insomma quello che si direbbe un affabile congenito. Ma della sua terra d’origine ha ereditato nel suo dna anche la voglia di inventarsi giorno per giorno. Non è stato forse il suo illustre conterraneo Pirandello a dimostrare che la maschera che ogni uomo assume a seconda delle situazioni è vita reale, che non c’è un uomo ma che dentro l’uomo ce ne sono uno, nessuno e centomila?

Ed eccolo il nostro nascere a Palermo, il 26 settembre 1960, sotto il segno zodiacale della Bilancia – s’era capito fin da subito – frequentare il liceo artistico, poi la facoltà d’architettura e laurearsi in quella disciplina. E’ amante dunque del bello ed è anche un bel ragazzo molto solare e amante della vita e delle sensazioni che questa gli offre. E’ di buona famiglia, il padre Andrea, buongustaio, ha un avviato atelier di sartoria, la madre gestisce una azienda pasticciera per la banquettistica, e questo gli consente di fare una bella vita, di disporre di soldi, guidare moto grintose con le quali far colpo sulle ragazze, è maestro di Karate e ha tanti amici con i quali divertirsi. E il bel Filippo alla progettazione di palazzi e di ambienti da arredare preferisce ben presto la avventurosa arte della fotografia. E siccome le capacità non gli mancano, si afferma rapidamente come un brillante fotoreporter di cronaca nera che, certo, in quel periodo, in una città martoriata dalla criminalità organizzata, non manca.

Nel 1982 la mafia uccide, in un sanguinoso attentato in Via Isidoro Carini, il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Filippo La Mantia, ha 21 anni, si precipita sul posto scatta un servizio fotografico che esprime tutta la drammaticità dell’evento e il servizio finisce sulle prime pagine di molti giornali.

E’ un fotografo oramai conosciuto e apprezzato, ma quattro anni dopo qualcosa spezza la sua brillante carriera di fotoreporter.  A 26 anni, nel clima di tragedie, sospetti e veleni che incombe sulla città, Filippo La Mantia viene arrestato e rinchiuso nel carcere dell’Ucciardone. Lo accusano di essere coinvolto nell’omicidio del vicequestore Cassarà. I colpi di mitra che avevano assassinato il servitore dello stato erano partiti da un appartamento che lui aveva affittato anni prima. La Mantia si vede crollare il mondo addosso, resterà in carcere 7 mesi, fino a che quella illuminata persona che risponde al nome di Giovanni Falcone dispone la sua scarcerazione sancendo la sua innocenza: quell’appartamento era stato abbandonato da La Mantia sette mesi prima dell’attentato, il giovane era totalmente estraneo al fatto.

In quei sette mesi di carcere ingiusto Filippo però non cede alla disperazione. Nei momenti di difficoltà la famiglia resta sempre un valido porto dalle acque sicure in cui rifugiarsi dalle tempeste in attesa che ritorni il sereno. E La Mantia, nel ricordo del padre Andrea, che aveva perso a due anni prima, e che se lo teneva accanto da piccolo in cucina quando preparava succulenti pranzetti per la famiglia, si offre in carcere di cucinare per gli undici compagni di cella, portando in quel luogo di sofferenza e disperazione il ricordo dei profumi dei fornelli di famiglia, un modo come un altro per respirare aromi casalinghi e sentire meno dura la detenzione in cella.

Non so se La Mantia abbia mai letto una breve poesia di Pablo Neruda, il grande poeta cileno che recita: “Nascere non basta/È per rinascere che siamo nati/ Ogni giorno”. Una poesia che gli si attaglia alla perfezione. Ed ecco che Filippo chiusa l’esperienza da fotoreporter lo ritroviamo a San Vito Lo Capo, dove apre un cous cous bar dove applica il concetto dell’ospitalità di famiglia ereditato dalla nonna la cui casa era sempre aperta a tutti nell’affermazione di una convivialità come concetto di vita. Bella esperienza. Il grande salto avviene quando sbarca a Roma, quel concetto di convivialità se lo porta appresso iniziando a cucinare nelle case private secondo il principio “tu mi ospiti, e io ti cucino” con una particolarità: niente soffritti. Nel 2001 ha un vero e proprio ristorante: La Zagara. Il percorso che si è avviato nel buio di una cella gli ha ora aperto le strade di una nuova vita.  Come ama dire con un riuscito calembour: ”Nasco per la prima volta a Palermo. Nel 2001 indosso la camicia bianca, mi trasferisco a Roma e nasco per la seconda volta: mi battezzo oste e cuoco”. I ricordi della sua Sicilia lo seguono indelebili: “Per me – ama dire – è un ricordo che passa attraverso il tatto. Mio nonno mi portava in carrozza al mercato della Vucciria di Palermo. Tra quei banchi ho imparato a conoscere il cibo. Basilico, menta, finocchietto fresco, melanzane, arance. Sapori e profumi che porto sempre con me”.

E’ un autodidatta, a guidarlo sono gli aromi, i profumi, i sapori, che il nonno, il padre, la mamma, gli hanno trasmesso in gioventù, la sua cucina diventa l’eredità di una famiglia aperta a tutti. È passione. E la gente accorre. La tradizione siciliana viene esaltata dalla sua cucina con una particolarità, una ossessione per l’aglio e la cipolla. I suoi piatti ne acquistano in suprema leggerezza. Lui ci tiene comunque a sottolineare che la sua scelta gastronomica non è una concessione ai gusti del pubblico per attirare maggiori consensi su una cucina che porta con sé tutto il carico di una tradizione contadina, ma una sua scelta personale, aglio e cipolla non gli sono mai piaciuti, e respinge le critiche che pure gli piovono addosso dai tradizionalisti.

Dopo la Zagara è la volta della Trattoria, un’altra esperienza che gli è rimasta addosso, un locale tra il Pantheon e Piazza Navona con cucina a vista e ospitalità “di casa”: è ancora l’eco degli insegnamenti della nonna.

E’ di questi tempi che forgia il suo claim: Chef?  No, io sono oste e cuoco. Una battuta, se vogliamo, ironica verso gli sperimentalismi di quegli anni, ma al tempo stesso una affermazione di orgoglio tutta siciliana, perché il suo locale deve rispettare i canoni dell’ospitalità della sua terra. “Il cuoco offriva prodotti di stagione, l’oste ti accoglieva recitando il menù. Era anche un cantastorie. È l’atmosfera – diceva e dice – che voglio ricreare”.

Poi all’improvviso un’altra delle sue scelte incredibili, lascia Roma e si trasferisce in Indonesia, dove fa da consulente per il resort Losari Coffee Plantation, a Giava.  “Da buon siciliano – giustifica la sua scelta – vivo alla giornata. Mi piace cambiare”.

Ritorna in Italia e nel 2008 è al Safina, ristorante del Pevero Golf Club di Porto Cervo, dove si fa conoscere da una clientela di villeggianti d’alto borgo.  Ma la sua definitiva consacrazione presso il grande pubblico arriva nel 2008 quando si insedia nel ristorante del prestigioso Grand Hotel Majestic di Via Veneto. Qui La Mantia ha modo di entrare in un’altra dimensione. L’albergo ospita una clientela internazionale di primo livello, nel suo ristorante arrivano capi di Stato, artisti, industriali, politici. Sembra rivivere atmosfere di tempi passati quando Via Veneto faceva notizia. Filippo da abile intrattenitore si divide fra i fornelli e gli onori di casa, diventa una vera e propria star.

Ma siccome nel suo destino si affaccia sempre quella poesia di Neruda, anche l’esperienza del Majestic si conclude. “Perché – confida – se un progetto non mi emoziona più lo abbandono”. E La Mantia siciliano di nascita, romano di crescita e di adozione, cambia nuovamente casa e si trasferisce a Milano.

Qui lo attende un’altra impresa ovviamente impegnativa, sembra un cavallerizzo che abbia bisogno di trovarsi sempre un salto a ostacoli davanti.

Ed eccolo l’oste e cuoco aprire nel 2015 un mega spazio nella centralissima Piazza Risorgimento a Milano.

Nell’algido capoluogo lombardo si installa nell’ex Gold di Dolce&Gabbana. 1800 metri quadri per intenderci, che portano il suo nome, dove applica un concept innovativo, un rigoroso e modernissimo design curato dall’architetto Lissoni, una sorta di grande casa con ambienti diversi: un bar diurno, un bar notturno, un ristorante, un’area relax e musica ovunque. Al piano terra fra motociclette da collezione (la sua vecchia passione), oggetti d’arredo in esposizione è di casa il finger food siciliano: arancini, panini ca’ meusa (con la milza), ma anche uno spaghetto espresso alle quattro del pomeriggio. Non ci sono regole e orari, è un locale da vivere a tutte le ore del giorno, uno spaccato della ininterrotta, in termini di orari, vita gastronomica palermitana dalle 8 del mattino all’1 di notte.  “Il mio – spiega – è uno spazio dove sentirsi liberi, come a casa. Dove rilassarsi, leggere un quotidiano o navigare su un tablet. Gustando una brioche palermitana o un’arancina”.

 Al piano superiore, ben altra storia. Atmosfere soft, raffinate ed eleganti, in cui poter bere e chiacchierare in tranquillità e un ristorante aperto di sera con una cinquantina di coperti.

Il locale dopo qualche incertezza iniziale prende il volo. L’oste e cuoco deve lasciare spazio all’imprenditore che trova comunque anche il tempo di coltivare la sua vita privata. Conosce e si lega a una food blogger di successo Chiara Maci che l’anno scorso gli ha dato un figlio. Come lo chiameranno? Andrea, come suo padre, perché le radici La Mantia non le dimentica. Andrea si ritrova anche una sorellina, Carolina, che La Mantia ha avuto dal matrimonio con Stefania Scarampi, autrice televisiva.  La famiglia allargata si arricchisce anche dalla presenza di Chiara che la Maci a sua volta ha avuto da una precedente relazione. E da buon patriarca siculo Filippo, che a 58 anni si gode la sua seconda giovinezza, riesce a fare convivere tutti in perfetta armonia.

Uno potrebbe dire a questo punto cosa desiderare di più?

Non ditelo mai a La Mantia perché dopo Palermo, Roma, Giava, Milano, quest’anno, avendo, come abbiamo visto, tanto tempo a disposizione… ha pensato bene di aprire un nuovo importante capitolo della sua intensa vita di oste.

E da Aprile si divide fra Milano e Venezia dove è stato chiamato a firmare l’offerta gastronomica del nuovo spazio di ristorazione ospitato dalla Fondazione Giorgio Cini, sull’isola di San Giorgio. Non è impresa da poco. Qui siamo lontani dal glamour di piazza Risorgimento, qui si tratta di gestire caffetteria, bistrot e ristorante (80 coperti nella sala interna e50 posti nel dehors) dell’unico luogo di ristoro sull’isola accanto alle mura benedettine della Fondazione con una vista suggestiva sulla darsena e Riva degli Schiavoni proprio di fronte alla Cattedrale di San Marco. Uno spazio aperto tutta la giornata, dove sono previsti anche eventi speciali, in cui La Mantia coniuga i piatti classici di Venezia, le ricette della cucina italiana e ovviamente il suo repertorio di cucina siciliana per una clientela internazionale. Ma sempre con il concetto che rappresenta la filosofia di base della sua cucina, l’importanza di dare un segno di convivialità alla sua ristorazione. Un suo refrain è “Non ho fatto scuole di cucina, non ho avuto grandi maestri, non ho stelle e non ci tengo ad averne ma sognavo di diventare oste e cuoco, ci sono riuscito e vivo alla giornata”. Il suo segreto? “Ogni cuoco conserva dentro di sé sensazioni uniche che rimandano all’idea di casa e alla gioia di stare tutti intorno a una tavola. I profumi e gli aromi rimangono impressi nella nostra memoria come una colonna sonora e servono a riproporre piatti colmi di amore e dei sapori di casa. I colori del cibo sono paragonabili a un arcobaleno, a noi cuochi il compito di stupire i nostri clienti ogni sera”.

Perché ogni sera, per il nostro, il mondo è diverso dalla sera prima.

Ah, Neruda, aveva proprio ragione…

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